Tina Modotti l’artista, la fotografa. La donna che ama la vita e vuole cambiare il mondo. La “guapissima”, bella e sensuale. Sogna la rivoluzione, crede nell’amore. Lo vive a Città del Messico, che diventa il suo Paese delle meraviglie e affolla la sua vita. Di arte e di parole, di passione e di tragedia. Fino alla sua fine…
“Tina sorella, tu non dormi, no, tu non dormi… puro è il tuo dolce nome, pura è la tua fragile vita…”
Pablo Neruda
(sulla lapide della sua tomba, al Panteòn de Dolores di Città del Messico)
Testo di Andrea Semplici
Su uno scaffale della mia libreria si trovano i libri importanti. Le storie che vorrei avere con me in ogni casa mi trovassi ad abitare. Ho controllato: fra questi vi sono nove libri attorno a Tina Modotti. Alcuni sono biografie. A volte sono lavori mediocri; molte pagine, invece, mi hanno emozionato. Perché Tina pone domande. Perché non ha risposte. In questo, potrebbe essere figlia del Messico contemporaneo, il Paese dell’enigma zapatista. Perché Tina è stata il mio Messico.
Il mito di Tina è ingombrante. In realtà dovrei sbarazzare lo scaffale dalle biografie, per incontrare la donna, l’artista, la fotografa. Per trovare Tina, che amava la vita e voleva cambiare il mondo. Devo scartare, senza dimenticare, la sua sensualità, la sua bellezza, la sua rivoluzione sognata. E rimanere assorto di fronte alla sua ansia vitale.
Assunta Adelaide Luigia Modotti, nata a Udine nel 1896, figlia di un meccanico e di una cucitrice, una famiglia friulana destinata all’emigrazione, ha vissuto nei primi straordinari decenni del Novecento. Tinissima, la chiamava sua madre. A diciassette anni, nel 1913, attraversa l’oceano per raggiungere il padre in California. “Tina non è un’intellettuale, ma è fatalmente disponibile a sperimentare la vita”, scrive di lei Valentina Agostinis, attenta osservatrice del cammino artistico di questa donna speciale. A San Francisco lavora come sarta ma, ben presto, diventa attrice nella prima Hollywood. Incontra un mondo di poeti, artisti, pittori. E fotografi. Sono cenacoli selvatici di intelligenza e inquietudini. Tina ne è contagiata. Cerca una sua direzione. Con ostinazione. È bella, guapissima, sa sentire il suo corpo. Segue, con istinto, l’amore. Incontra Edward Weston, pioniere della fotografia di inizio secolo. È una passione che non conosce ostacoli. Né il precoce matrimonio di Tina con un malinconico pittore, né i quattro figli di Weston impediscono una storia appassionata.
Il Paese delle meraviglie
Tina ed Edward vanno in Messico. E quel Paese è la loro meraviglia, il loro stupore. È la vita che cercavano. Tina non potrà mai dimenticarne l’immensità, i suoi vapori ardenti, i fiori che divorano la terra, le notti che laggiù hanno colori e intensità. “Niente si può nascondere sotto questo cielo crudele e senza nubi”, annota Weston e fotografa tutta la bellezza di Tina sul terrazzo di una casa a Città del Messico. Il Messico divampò, con tutta la sua forza, nel cuore di Tina. Weston, forse, ne fu così spaventato, che dovette scappare via da questa intensità incontrollabile. Tina rimase. Erano gli anni di Diego Rivera (Tina posò per lui, forse ne fu amante), di Xavier Guerrero (Tina visse con lui), dei muralisti, della grande rivoluzione del primo Zapata, di Frida Khalo. Conosce D.H. Lawrence e John Dos Passos. Il Messico accoglieva gli esuli di ogni sconfitta. Tina è attrice di questo palcoscenico eccitato. È fra le donne che provano a capovolgere il mondo. Ha addosso l’elettricità disperata di quegli anni. Tina sa interpretare, con le sue foto, l’anima profonda del Paese. Ha imparato la tecnica da Edward,di lui ha uno sguardo che sorprende. I suoi occhi vedono qualcosa che altri non riescono a percepire. Le sue fotografie, poche, pochissime (molte sono andate perdute, la sua storia fotografica, in fondo, dura app ma più ena sette anni), lente, studiate a lungo, raccontano, rivelano. Guardo le mani del campesino poggiate su un badile e ritrovo la fatica del mondo dei contadini. Guardo le linee intrecciate dell’interno del campanile di Tepotzotlàn e vi vedo l’astrazione perfetta. Osservo il corpo nudo di Tina, fotografato da Edward, e mi sorprendo sempre della sua vitalità dirompente. È elettricità, Tina. Mi soffermo davanti alla foto di due calle, la luce è straordinaria, in questa immagine vedo la naturalezza dell’erotismo.
Ritorno per morire…
Se Weston se ne va (se ne pentirà?) Molti anni dopo, il suo diario è ancora colmo di parole di amore per Tina e per quel Paese. Tina vive il Messico. Tina affolla la sua vita. Di arte e di parole, di amori e di passione. Non passa immune attraverso il suo secolo, Tina. Vive la tragedia del trotskismo. Diventa comunista, rivoluzionaria. Sacrifica la fotografia alla militanza. Il suo nuovo compagno, Julio Antonio Mella, comunista cubano, viene assassinato mentre è al suo fianco. Attraversa l’esilio, sfugge al fascismo italiano, va a Mosca e vive l’incubo dello stalinismo (il suicidio di Majakoskij…), combatte in Spagna. Si perde, Tina. L’Europa non possiede la “dannata luce del Messico”. Non si può vivere senza quella luce. I tempi non hanno pietà per chi ha offerto al mondo la sua fragilità.
Robert Capa, il grande fotografo, cerca di salvarla: “Riprendi in mano la macchina fotografica”, cerca di convincerla. Ma Tina ha chiuso le porte della sua vita passata. E la fotografia ora si è fatta veloce e lei “non è aggressiva”. Ha bisogno di una lentezza che non è più possibile. La storia terribile del Novecento graffia a sangue la sua vita. È sfinita. Torna ancora in Messico, ma non cerca la sua vecchia gente. Torna per morire. In un taxi. Sola, e solo a 42 anni. Sulla lapide della sua tomba, al Panteòn de Dolores di Città del Messico, è Pablo Neruda a incidere parole di dolcezza disperata: “Tina sorella, tu non dormi, no, tu non dormi… puro è il tuo dolce nome, pura è la tua fragile vita…”.