Navigare sui fiumi dell’Amazzonia significava, per me, l’incontro con alcune delle popolazioni più primitive della Terra insediate nel profondo della foresta
Testo di Willy Fassio
Dalla lettura del libro I fiumi scendevano a Oriente è nato il mio interesse verso quel mondo sconosciuto e in gran parte inesplorato che è l’Amazzonia, la più grande foresta pluviale e il più grande polmone d’ossigeno del pianeta. Avevo letto con avidità le pagine di Leonard Clark che raccontavano in modo romanzato e fantasioso una spedizione nell’Amazzonia peruviana, sul Rio Ucayali, alla ricerca del mitico Eldorado.
La lettura di quelle pagine accese il mio desiderio di conoscere quel mondo straordinario che custodiva una natura ancora primordiale e un mondo nascosto di uomini, di animali e di mistero. Si fece largo in me il progetto di un viaggio di esplorazione nel Pianeta Amazzonia. Dopo qualche anno, il mio sogno si realizzò con la partecipazione a una spedizione nell’alto bacino dell’Orinoco, nell’Amazzonia venezuelana. I molti viaggi effettuati in seguito mi hanno consentito di avvicinare e comprendere molti aspetti della straordinaria complessità della vita degli Yanoama, grazie anche all’affascinante storia riportata dal professor Ettore Biocca nel libro Yanoama – Dal racconto di una donna rapita dagli Indi. Furono l’impegno di Helena Valero – così si chiamava la donna catturata dagli indios – e il paziente e intelligente lavoro del ricercatore – che la aiutò a far riemergere e rendere noti i ricordi di una vita vissuta per oltre vent’anni con gli Yanoama – a consentire di illuminare il buio profondo che circondava la realtà quasi preistorica di questo popolo.
L’attenta osservazione della loro struttura sociale, mi confermò quanto scritto da Claude Lévi-Strauss, padre dell’antropologia moderna, in Tristi tropici, diario di viaggio e saggio antropologico, considerato una pietra miliare nel campo dell’indagine etnologica. I concetti da lui elaborati sul “relativismo culturale” e il suo personalissimo approccio alle culture oggetto di studio divennero per me immediatamente chiari e comprensibili quando venni a contatto con la vita degli Yanoama. Compresi, dalla diretta osservazione, come la capacità di vivere in un ambiente difficile, quale è la foresta pluviale, fosse il risultato di sofisticate tecniche, apparentemente semplici ma in realtà risultato di conoscenze millenarie. Tali tecnologie consentivano a un indio di accendere il fuoco roteando un bastoncino o di salire sulla cima di un’altissima palma dotata di aculei durissimi, senza scale e senza corde, per raccoglierne i frutti.
Ho visto spesso disboscare porzioni di foresta per ricavarne un conuco. Gli uomini preparano la terra per le coltivazioni con il sistema del “taglia e brucia”: dissodano un piccolo appezzamento strappato alla foresta, bruciano alberi e sterpaglia, concimano con la cenere. Poi procedono alla semina di tuberi, banane e platanos, patate dolci, igname (che dà ottimi frutti) e manioca che cucinano in vari modi, crudi, bolliti o cotti sulla brace. Coltivano anche il tabacco che viene poi inserito, in foglie arrotolate a forma di bolo, tra i denti inferiori e il labbro, da cui la deformazione che fa assumere al viso un aspetto feroce.
La caccia per gli Yanoama è uno dei momenti più importanti. Abili cacciatori, possiedono una straordinaria capacità di riconoscere e seguire ogni minima traccia e imitano alla perfezione il verso degli animali per attirarli ad una distanza tale da poterli colpire con le loro frecce. Utilizzano un arco estremamente flessibile e potente, che costruiscono con il legno della palma pijiguao. Le frecce, particolarmente curate, sono ricavate da una canna coltivata e leggerissima. Le punte, di tre tipi diversi, scelte a seconda della preda da colpire, vengono fissate all’estremità della freccia in modo da poterle facilmente sostituire in caso di rottura. Una di queste, incisa, viene poi imbevuta di curaro. Le prime notizie relative a questo veleno si perdono nel tempo. Già Alexander von Humboldt, quando giunse ad Esmeralda nei primi anni del 1800 sentì parlare di un potente veleno usato dagli indios Maquiritari dell’alto Orinoco. Grande importanza assume il rito dell’epenà che consente, attraverso l’inalazione di una polvere allucinogena, lo yopo, di entrare in contatto con gli spiriti, gli ekurà. Questi ultimi sono collegati ad ogni manifestazione della vita degli Yanoama. La polvere viene assunta con intenti propiziatori sempre prima della caccia, dell’attacco a un gruppo nemico o di una pratica di guarigione.
Gli Yanoama, prevalentemente cacciatori-raccoglitori, non praticano l’allevamento, ma amano circondarsi di animali selvatici, quali pappagalli, scimmie e piccoli roditori. Un ruolo particolare occupa il cane, utilizzato per la caccia al tapiro o al cinghiale, verso il quale nutrono un vero affetto e al quale riservano un apposito rito funebre, che ne comprende la cremazione delle ossa. Per l’occasione, il padrone offre frutti e carne agli amici, mentre lui osserva il digiuno, come alla morte di un parente. Presso gli Yanoama è quasi del tutto assente la ceramica, salvo piccole ciotole molto primitive di argilla cotta al sole. I recipienti sono costituiti normalmente da zucche selvatiche svuotate e talvolta decorate da grafismi simbolici. Oltre a queste decorazioni e ai tatuaggi corporali, non sono presenti altre espressioni artistiche. Anche la tessitura si riduce alla filatura del cotone selvatico, con il quale producono le amache e il guayuco, una sorta di gonnellino. Questa tecnica, tuttavia, non appartiene alla loro cultura, ma è acquisita dai confinanti Maquiritari: lo dimostra la fattura dell’amaca che, in origine, era costituita solo da strisce di corteccia finemente tagliate e annodate ai due estremi. La costruzione di cesti e canestri è molto diffusa ed è riservata alle donne che sono molto abili nei vari tipi di intreccio.
Sono incredibili la velocità e l’agilità con cui gli Yanoama si spostano nel folto della vegetazione. Una fitta rete di sentieri – per noi difficilmente individuabili, poiché tracciati con impercettibili piegature di rametti – taglia la foresta permettendo di evitare le curve sinuose dei fiumi che allungherebbero inevitabilmente i percorsi. Talvolta si incontrano, laddove i fiumi sono troppo profondi o troppo larghi per consentirne il passaggio a nuoto, rudimentali ponti, estremamente fragili e il cui superamento richiede grandi doti di equilibrio. Normalmente, si tratta di pali legati a forma di “X” e infissi semplicemente nel fondo del fiume che sostengono un sottile tronco adibito al passaggio, ai lati del quale vengono fissate delle liane per favorire l’equilibrio.
Sono essenzialmente uomini della foresta, grandi camminatori e coprono distanze considerevoli in poco tempo. Completamente autosufficienti, portano sempre con sé l’amaca, le armi e i bastoncini per accendere il fuoco. A differenza dei limitrofi Maquiritari e Piaroa, abili costruttori di canoe ed esperti navigatori, possiedono imbarcazioni molto primitive, costruite semplicemente usando la corteccia di un albero che viene ripiegata a prua e a poppa per impedire l’entrata dell’acqua. Più recentemente, presso alcuni gruppi si è andata diffondendo la piroga scavata direttamente in un tronco con l’uso di un’ascia e del fuoco: tecnica che hanno appreso dai loro vicini Maquiritari. Questo ha modificato in parte lo stile di vita permettendo di effettuare così lunghi spostamenti per via fluviale anziché via terra.
Oggi gli Yanoama sono uno dei rari gruppi tribali che, in qualche parte recondita dell’alto Orinoco e degli affluenti del Canal Casiquiare, mantiene ancora pressoché intatta la propria cultura, senza vistosi segni di acculturazione. In aree stanziali più vicine alla “civiltà” si assiste all’inevitabile processo di trasformazione dovuto alla vicinanza di altri gruppi etnici di diversa cultura e alla presenza dell’uomo bianco. Ne è una prova la tendenza a sostituire lo sciapuno, la grande casa collettiva della tribù, con la casa a due tetti spioventi, completamente chiusa, che limita la vita promiscua nella sua nudità pressoché integrale. La divisione della comunità yanoama in piccoli nuclei (case separate) ne facilita l’assorbimento e l’inserimento in altre aree culturali. L’abitudine di vestire l’indio, oltre che essere negativa per ragioni igieniche (infatti l’indio non possiede il sapone), è un ulteriore elemento di differenziazione tra i singoli individui (fattore disunificante). L’introduzione di oggetti fabbricati con una tecnologia a loro sconosciuta, è determinante per creare processi di involuzione all’interno dei gruppi. È evidente che essi possono apprendere in un tempo ragionevolmente breve l’utilizzo di tutta una serie di strumenti introdotti, ma con l’immediato risultato di creare bisogni prima inesistenti. Il machete, le forbici, il filo di nylon, gli ami per pescare, i fiammiferi (oggetti che normalmente vengono offerti per favorire l’approccio con le comunità più primitive), non hanno modificato in senso positivo la vita delle comunità indigene.
La sopravvivenza nella foresta è di per sé una dimostrazione della perfetta capacità di adattamento all’ambiente da essi raggiunto. Per contro, gli oggetti introdotti che essi non sono assolutamente in grado di produrre con tecnologie proprie, contribuiscono a limitare la possibilità di vivere in modo autonomo, rendendoli dipendenti dalle culture più avanzate. Nel volgere di pochissimo tempo, l’indio si abitua ad accendere il fuoco con il fiammifero ma disimpara a farlo roteando il bastoncino di legno. Anche la pesca gli risulta facilitata con l’amo, ma nel frattempo perde l’abilità ad usare arco e freccia. Il possesso e l’uso del fucile per la caccia, oltre che ad alterare un equilibrio (rapporto spazio-animali-numero di abitanti in una nicchia ecologica), pone l’indio in una situazione di sottomissione nei confronti di chi gli ha donato il fucile, rendendolo disponibile a qualsiasi compromesso pur di mantenere un mezzo di ostentazione di potere all’interno della comunità. Da questi esempi è evidente il risultato dell’introduzione di tecnologie normalmente assenti nella cultura dei primitivi. Scomparsa, o perlomeno diminuita, l’abilità di cacciare con l’arco, l’indio si trova in possesso di un’arma tanto sofisticata quanto inutile, dal momento che non è in grado di fabbricarsi direttamente le cartucce o di effettuare semplici manutenzioni.
La distruzione fisica di un gruppo etnico passa attraverso differenti stadi, di cui il più grave è rappresentato dalla perdita della propria identità culturale. Annullato il patrimonio spirituale e tecnico autoctono, per l’indio tutto ciò che accade al di fuori della propria possibilità raziocinante è privilegio del bianco, dotato di poteri superiori. Il primitivo rimane emarginato, schiavo, succube e avvilito. In ogni caso, il destino di tutte le comunità primitive, dall’Africa all’Oceania, al Sud America, è segnato. È un fatto ineluttabile. Per onestà intellettuale dobbiamo convenire che a tutto ciò non vi è soluzione. Il mondo al quale noi occidentali siamo abituati a rapportarci corre a velocità tale e su binari tanto divergenti, da non consentire nessun avvicinamento alle culture primitive. Ma è altrettanto impossibile pretendere che queste rimangano nella loro condizione per soddisfare la nostra curiosità. Dobbiamo rassegnarci alla scomparsa di questo mondo primordiale. Forse la nostra è l’ultima generazione che ha avuto la possibilità di osservare, attraverso le ultime tribù primitive, il cammino dell’uomo, dall’uso della pietra focaia alle straordinarie conquiste nello spazio.



