Celebra tradizioni, sapori, idee. Mescola semi, fibre, frutti, carni. Dalla feijoada al vatapà, dal quindim alla farofa, per arrivare fino al sushi e ai temaki: la cucina brasiliana ha conquistato un posto di rilievo mondiale. Le ragioni del successo? Secoli di contaminazioni culturali e di evoluzioni storiche, che hanno arricchito le tavole locali
Testo di Luisa Taliento
Samba, carnevale, calcio, spiagge: sono le prime immagini che vengono in mente quando si dice Brasile. Ma questo Paese del Sud America, quinto al mondo per vastità, ha conquistato, per il 2025, secondo la classifica della rivista americana Esquire, il dodicesimo posto, per la migliore cucina del Pianeta (e sì, per chi fosse curioso, la cucina italiana si è piazzata al primo posto!). Un primato, quello brasiliano, dovuto soprattutto a secoli di contaminazioni e continue evoluzioni storiche, riconducibili a quattro periodi principali.
Dalle radici indigene agli influssi europei e asiatici
Il primo è quello dell’epoca precolombiana in cui le popolazioni indigene basavano la loro alimentazione su ingredienti locali come pesce e carne di caccia, peperoncino, spezie, frutta tropicale, manioca, che è un tubero utilizzato per la preparazione delle farine. Si può dire che proprio a questo periodo appartenga uno dei piatti tipici brasiliani, la farofa, un contorno (adatto anche a celiaci e intolleranti), che si accompagna a secondi di carne e pesce. Anche la carne de sol, la carne salata del Nordest, sembra sia nata dall’abitudine indigena di arrostire la cacciagione per poi conservarla per settimane. La seconda epoca storica è quella coloniale, dal 1500 al 1800, quando arrivarono i portoghesi che introdussero grani e latticini, legumi, come i fagioli, carne di maiale e di manzo, dolci a base di zucchero e uova. Una contaminazione che portò alla realizzazione di piatti iconici come la feijoada, che deriva proprio da feijão, fagiolo in portoghese. Si prepara con fagioli che possono cambiare a seconda dello Stato, da quelli neri, nella versione carioca, a bruni per la ricetta baiana, legumi che poi vengono cucinati per ore con diversi tagli di carne di maiale (salsicce, costine, pancetta). Di derivazione portoghese anche il quindim, un dolce a base di cocco e latte condensato, che s’ispira ai dolci conventuali. Tra il 1600 e il 1800 i portoghesi sostituirono nelle piantagioni di caffè e zucchero i lavoratori indios con gli schiavi, trasportati in massa dall’Africa. Il loro arrivo influenzò profondamente la gastronomia brasiliana, con la combinazione di spezie e sapori forti, che ancora oggi caratterizzano i piatti bahiani, e l’uso dell’olio di palma (dendê), fondamentale nella cucina del Nordest. Viene usato per condire piatti come la moqueca, uno stufato di pesce alle verdure, o per friggere l’acarajé, una polpetta ripiena servita con una farcitura di peperoncino e il vatapà, un intingolo di latte di cocco e gamberi.
Le ricette di dona Flor
L’acarajé, più che un piatto, si può considerare un rituale, perché è dedicato a Iansa, la dea dei venti e delle tempeste. Viene preparato anche dalle sacerdotesse del Condomblé, la religione che venera gli Orixàs, divinità africane sincretizzate con i santi cristiani. Una ricetta “divina”, descritta nei minimi particolari anche da Jorge Amado nel romanzo Dona Flor e i suoi due mariti, quando Dona Flor, la protagonista, la prepara per lenire i dolori e il lutto. Nel 1888, quando venne abolita la schiavitù in Brasile, arrivarono nuovi immigrati dall’Europa e dall’Asia, ognuno con il proprio bagaglio culinario. Gli italiani diffusero la passione per la pasta, il pane, la pizza, oltre a influenzare dolci e caffè, i tedeschi portarono la tecnica di produzione della birra (che è la bevanda che si sposa meglio con questa cucina), gli arabi diffusero il consumo di sfihas, le focaccine ripiene, e kibe, le polpette di grano e carne, mentre i giapponesi i piatti di pesce crudo. Tra tutti gli immigrati sono stati proprio i lavoratori nipponici (oggi sono quasi 2 milioni, la più grande comunità fuori dai confini nazionali) a portare in terra straniera le proprie tradizioni e a mescolarle con grande audacia e sapienza con salse, frutta, ingredienti tropicali. Consistenze e abbinamenti che sono diventati i piatti simbolo della Nikkei Burajiru jin, la cucina nippo-brasiliana, ben rappresentata dal colorato sushi brasiliano e dal temaki, il famoso cono di riso e pesce avvolto da un’alga nori, declinato con ingredienti locali di stagione.
Il Brasile contemporaneo
Oggi la tendenza è quella della cucina amazzonica e nei menu dei ristoranti compaiono ceviche di pesce ai fiori marinati con mel de abelha indigena (un miele prodotto dalle meliponi, api native del Brasile senza pungiglione) e piatti vegetali al 100 per cento, in cui si utilizzano le alghe al posto del pesce. Tra gli ingredienti spiccano il cupuaçu, un frutto considerato per le sue proprietà un superfood naturale, il pirarucu, pesce di acqua dolce, il jambu, l’erba-pepe con cui si prepara la tacacá, una zuppa di verdure e gamberi. Molti chef collaborano con l’Embrapa, l’Istituto Brasiliano di ricerca sull’agricoltura, con la missione di prendersi cura dell’Amazzonia attraverso la cucina. La foresta è, infatti, una dispensa di prodotti, ma anche una grande comunità di persone che lavorano e che, in questo modo, vengono protetti e salvaguardati. E si va a tavola più felici.