I passi affrettati dei vicini e il mormorare tipico di chi non vuole far rumore mentre è pervaso dall’euforia, mi svegliarono da un sonno non molto profondo. Erano circa le due di notte di un autunno appena iniziato e mi trovavo a Grundarfjörður, nel nordovest dell’Islanda. Aprii leggermente le tende per osservare l’immobilità della notte, giusto un angolo di telo prima di comprendere quel trambusto: corsi all’armadio, infilai i primi pantaloni che trovai, afferrai una fotocamera e mi precipitai fuori. Non era la prima, ma là fuori nella notte oscura stava danzando l’aurora più bella che avessi mai visto.
L’oscurità altera la nostra percezione, le forme cambiano dimensione, eppure quella notte lungo la strada tutto sembrava in perfetto ordine. Il mondo era in assoluta armonia con i suoi elementi, c’era allegria nell’aria, sopra di me regnava il mistero dell’universo.
Il Nord è un luogo di contrasti. A volte può sembrare un mondo senz’anima spazzato dai venti freddi, altre volte si manifesta brulicante di vita; quelle luci verdi, rosse e viola che fanno la loro comparsa improvvisa nel buio della notte polare hanno da sempre ispirato alcuni dei miti più interessanti della tradizione nordica. In quel momento di contemplazione, mi facevano compagnia tutti quei popoli che per secoli avevano ammirato, temuto e cercato di decifrare il messaggio proveniente dall’arcano che danza nei cieli. Si trattava di epiche fantasticherie, di racconti spaventosi dall’aldilà, erano vibrazioni che riecheggiavano nei secoli sotto i colpi del tamburo di uno sciamano.
Uno dei miti più raccontati e conosciuti è quello finlandese di Revontulet, le luci create da una volpe artica che correva così veloce di collina in collina da non accorgersi che la sua coda stava spazzolando la neve, spruzzandola nel cielo sotto forma di scintille. La presenza di animali è tipica di altre zone della Scandinavia: per alcune popolazioni costiere quelle manifestazioni erano il soffio di una balena venuta a far visita a qualche tribù locale. Per altre, invece, erano il riflesso propiziatore di grandi banchi d’aringhe: le settimane seguenti avrebbero garantito ottime battute di pesca e buoni raccolti.
Per un popolo valoroso come quello vichingo, l’aurora non poteva che essere legata alle epiche guerre del passato: rappresentava il respiro dei soldati più coraggiosi morti in battaglia. Secondo altre interpretazioni, quelle luci sfavillanti erano il celebre ponte Bifrost, un arco che conduceva i guerrieri caduti fino Valhalla. Per altri ancora, erano il riflesso delle armature delle valchirie, le valorose donne guerriere.
In Islanda, quei colori danzanti erano legati al parto: avrebbero alleviato il dolore alla donna; per gli Inuit in Groenlandia rappresentavano lo spirito dei bambini morti prematuri. Si manifestavano così dirompenti ed improvvisi accendendo la lunga notte polare che per molti popoli potevano solo esser collegati al mondo ultraterreno: erano anime in festa, come credevano i popoli nativi di Canada e Alaska; spiriti di cervi, lupi e salmoni, per gli abitanti dello Yukon; maledizioni inviate dei nemici uccisi in battaglia, annunciatrici di guerre o pestilenze, come creduto dalle tribù che vivevano lungo il fiume San Lorenzo in Ontario o in altri luoghi del Nord America, dove l’aurora boreale era temuta, tanto da non esser mai nominata. Ovunque e in ogni tempo, l’occhio ammaliato dell’uomo l’ha arricchita di significati, fantasie e magie, perdendosi nella sua meraviglia.
Quella notte, accostai nel primo terreno libero lontano dalle luci artificiali e pensai al canto di Uvavnuk, la donna sciamano iglulik citata da Knud Rassmussen.
La volta del cielo mi commuove.
Il vento forte mi soffia nella mente. Mi porta via con lui.
Così io tremo di gioia.
L’invito per la prossima volta che sarete con il naso all’insù è quello di fare attenzione: lì con voi ci saranno popoli che cantano e danzano da millenni il mistero del mondo.
Foto di copertina: DesiDrew Photography (Adobe Stock)