Passeggiando nelle vivaci stradine di Moshi si avverte la sua presenza. È ovunque. Il suo nome è prestato a guest houses e hotel, agenzie viaggio e negozi specializzati. La sua sagoma compare nei dipinti e sui tessuti tradizionali che colorano le vie. Perfino la birra locale si è impossessata della sua forza simbolica. È il Kilimanjaro, la montagna più alta di tutta l’Africa.
Lo sguardo si alza sopra la savana e sopra le acacie che punteggiano il paesaggio del Nord della Tanzania; si perde nel biancore accecante del sole. Si sa che la montagna è lì, da qualche parte, ma è quasi sempre nascosta. È evanescente come un miraggio, misteriosa come un’isola sconosciuta. Quando finalmente si concede alla vista, lo fa per stupire. È immensa, i ghiacciai attorno alla cima svettano cinque chilometri più in alto, oltre le nuvole, dove lo sguardo normalmente cerca le stelle.

Kilimangiaro vetta. Foto di Nicola Pagano
L’idea di salire sulla cima di questo gigantesco stratovulcano è affascinante e richiama in Tanzania molti viaggiatori da tutto il mondo. Non solo alpinisti che vogliono inanellare le famose “Seven Summits” (sette vette per sette continenti) di cui il Kilimanjaro fa parte, ma anche amanti del trekking e della natura selvaggia. Tecnicamente, infatti, dopo la giusta acclimatazione, è una montagna accessibile a chiunque sia un po’ allenato e abbia la giusta motivazione.
La salita al Kilimanjaro è un viaggio nel viaggio. Si varca la soglia di un mondo dalle caratteristiche uniche e passo dopo passo ci si innalza fino al trono del dio Ngai, che per i Masaai risiede proprio sulla vetta, a 5.895 metri sul livello del mare. Il sentiero attraversa la foresta densa e lussureggiante, prosegue in una immensa brughiera di piante aliene e, superato un vasto deserto d’alta quota, giunge tra i ghiacciai sommitali.

Kilimangiaro. Foto di Nicola Pagano
Durante i cinque o sei giorni necessari per la salita il tempo si dilata e scorre al ritmo dei passi e del respiro. La Natura prende il sopravvento tornando a stupire. Lo spirito si rilassa e proprio come narra una leggenda Masaai: «Chi corre verso Ngai deve avere pensieri buoni altrimenti non gli sarà mai concesso di raggiungerlo». Ecco perché si racconta che vicino alla vetta si trovi la carcassa di un leopardo: inseguendo la gazzella che si era rifugiata da Ngai, il leopardo dal cuore impuro morì vagando sul ghiacciaio.

Kilimangiaro vegetazione. Foto di Nicola Pagano
Perfino il mitico imperatore Menelik, figlio della regina di Saba e del re Salomone, giunto fino in Tanzania durante le sue campagne di conquista, si innamorò di questa montagna.«Appena vide la mole del Kilimanjaro», racconta il Kebra Negast (il Libro dei Re), «intuì che il momento supremo della sua esistenza era giunto. Scortato dai suoi guerrieri fino al limite delle nevi eterne, proseguì da solo per morire vicino a Dio, su di un trono per lui appositamente allestito. Da allora regna sul Kilimanjaro e il suo tesoro è sepolto per sempre nel ghiaccio».
Quando all’alba del giorno di vetta ci si affaccia da Gilmore’s Point (5.680 metri) sulla grande caldera centrale, la cornice del vulcano sembra realmente un trono gigantesco. Due vasti ghiacciai alti più di trenta metri adornano, come gioielli, le aride pietraie circostanti. Il sole appena sorto investe di luce dorata i lucidi seracchi. Un ultimo sforzo e, nell’aria rarefatta e gelida, si giunge sul picco di Uhuru (5.985m), la vetta del Kilimanjaro. Giù in basso, oltre le nuvole, la pianura africana sonnecchia ancora nell’oscurità. Forse è questo il tesoro di Menelik.