Il Perù è uno scrigno di bellezza dove l’immenso patrimonio culturale dalle civiltà pre-ispaniche regala tutt’oggi sorprendenti scoperte. Hiram Bingham, “l’Indiana Jones” di Yale, esploratore e archeologo statunitense porto alla luce e diede visibilità, grazie anche al National Geographic, a una delle sette meraviglie del mondo moderno quale è Machu Picchu. Ma pochi sanno che non molto distante dal Cusco, l’imperatore Inca Huayna Capac – nipote di Pachacútec (fondatore di Machu Picchu) – volle edificare sulla base di antiche civiltà pre-incaiche il suo tempio sacro oggi chiamato Waqra Pukara. Dichiarato nel 2017 Patrimonio Nazionale della Cultura questo tempio-fortezza sito a 4300 metri si affaccia sul profondo e sacro Canyon del fiume Apurimac. Raggiungerlo è una piccola avventura. Il percorso di avvicinamento necessita di una sosta presso le comunità locali, occasione per entrare a contatto con la popolazione autoctona. Da qui il giorno dopo si prosegue a piedi per quattro ore circa lungo antichi sentieri Inca per 7 chilometri salendo di circa 900 metri. La notte a 4300 metri regala un suggestivo scorcio sul Canyon e sulla sagoma di Waqra Pukara. In lingua quechua Waqra Pukara significa “la fortezza dalle corna” ma le i locali da secoli lo chiamano Llama Pukara ovvero “la fortezza del Lama” in quanto per loro la forma evoca le orecchie di un Lama in posizione di allerta, d’altronde nel 1450 “bovini e conquistadores” non c’erano ancora.
Il Sacrificio delle bimbe Inca
Apocalypto, il film di Mel Gibson sui Maya, ci ha fatto capire come questa civiltà fosse dedita ai sacrifici umani poiché le stagioni dovevano portare abbondanti raccolti e prosperità, soprattutto alle classi ai vertici del potere politico e religioso, o placare chissà quali ire e funeste predizioni. Ma in verità nessuno nella storia è sfuggito alla logica del sacrificio, anche quello estremo, un “dono” che più era sentito e sofferto e maggiore sarebbe stato il gradimento dell’entità al quale era rivolto. Anche la piccola Juanita, figlia tredicenne appartenente a una famiglia di alto rango dell’eletto popolo Inca, intorno al 1450 intraprese un lungo percorso verso il sacrificio. Scelta tra tante per purezza e preziosità da sacerdoti intransigenti fu il tramite tra l’Inca e gli dei perché si placassero le ire dei vulcani che stavano devastando l’area intorno alla città di Arequipa, nel sud del Perù. Accompagnata da ancelle e sacerdoti a più di 6000 metri sulla cima del vulcano Ampato, con i soli sandali, alcune vesti di lana e il supporto energetico delle foglie di coca, fu sistemata in una nicchia della montagna e dopo essere stata vestita con abiti ricercati e ingioiellata venne stordita con abbondante “chicha”, una bevanda alcolica a base di mais, e anestetizzata dalle foglie di coca per poi essere colpita e uccisa. Nel 1995 grazie al suggerimento di alcuni alpinisti e allo scioglimento dei ghiacci dovuto all’eruzione di un vicino vulcano due antropologi ritrovarono questo fagotto integralmente conservato dai ghiacci e contenente la piccola sagoma di questa bambina inca. Oggi Juanità è protetta all’interno di una teca refrigerata presso il Museo Santuarios Andinos di Arequipa. Juanita fu la prima di tante bambine Inca ritrovate sulle vette di altissimi vulcani sparsi nell’immenso Tahuantinsuyo, il grande impero Inca, montagne cosi alte che rappresentavano il veicolo più vicino tra la terra e gli dei.
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