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La Mongolia, paese di altopiani, steppe e deserti è terra più di viaggiatori che di turisti, visitarla è sempre stato molto complesso e ancor oggi, pur con tutte le aperture avvenute dopo i cambiamenti politici degli ultimi due decenni, che hanno reso di fatto completamente accessibile il paese ai visitatori stranieri, risulta sempre difficoltoso viag­giare al suo interno al punto che la Repubblica di Mongolia rimane tra i paesi più sconosciuti dell’Asia e forse uno dei luoghi più incontaminati del mondo, dove le tradizioni permeate di rituali sciamanici continuano a trasmettersi di generazione in generazione nel totale rispetto della loro terra  ed in armonia con la natura.

Con i suoi due milioni e mezzo di abitanti ancor oggi in gran parte noma­di, sparsi nelle steppe e nei deserti grandi cinque volte l’Ita­lia, la Mongolia conserva l’eredità del più grande impero che il mondo abbia mai visto e del più geniale e sagace condottiero della storia, molte volte emulato ma mai eguagliato, Gengis Khan.

Sopravvivono ancor oggi nella memoria del popolo mongolo le gesta di questo loro venerato antenato che riunì sotto il suo regno gran parte dell’Asia e dell’Europa orientale, dal Pacifico alle Alpi e dal Mar Artico all’isola di Giava. Un impero che si distinse, oltre che per la vastità del territorio e le presunte crudeltà delle sue genti, per la straordinaria stabilità, sicurezza e tolleranza che si era venuta a creare al suo interno (periodo questo conosciuto con il nome di pax mongolica), che di fatto rese possibile il fiorire dei traffici, sulle grandi vie carovaniere, tra Oriente ed Occidente, come anche ci racconta Marco Polo nel Milione.

Nella Mongolia contemporanea, oltre alla grande abilità nelle attività equestri, nulla è rimasto della bellicosità di un tempo dei cavalieri mongoli, ma ogni anno nei primi giorni di lu­glio una frenesia pervade il paese. In ogni luogo, dalla capitale Ulaanbaatar ai più remoti Sum, i villaggi di yurte, si vive il momento atteso per tutto l’anno, il Naadam.

I villaggi si riempiono di giovani cavalieri, impettiti e fieri, che arrivano dalle zone più remote del loro distretto, portando con se la famiglia, la casa ed il bestiame. Sono i migliori cavalieri, i migliori allevatori, i migliori arcieri e i migliori lottatori di tutto il paese che andranno a cimentarsi nel Naa­dam la grande festa dei popoli mongoli.

Il Naadam rappresenta il più tradizionale tra i momenti di radu­no di questo popolo nomade, e le sue gare sportive di grande fa­scino forse altro non sono che la reminiscenza delle antiche ge­sta di un popolo di guerrieri. Come esprime il suo nome completo Eriyn Gurvan Naadam, “i tre giochi dell’uomo”, nel Naadam si gareggia in tre diverse specialità, la lotta, il tiro con l’arco e le corse con i cavalli, a cui possono accedere uomini e donne, anche se le donne gareggiano nelle corse con i cavalli e nel tiro con l’arco, ma non nella lotta.

La passione e la partecipazione, genuina e sincera, della popolazione è tale che durante le competizioni tutta la gente si riversa nei luoghi di gara e le vie e le strade, dal più piccolo villaggio fino alla capitale, so­no praticamente deserte.

A contendersi il primato nelle gare di lotta sono una moltitudine di lottatori tutti con il tipico corpetto, che lascia ben in vista i muscoli petto­rali, e gli stivali, con la punta arrotondata verso l’alto per non offendere la terra, che combattono tra di lo­ro a due a due in gare ad eliminazione diretta in nove rounds per concor­rere al titolo di Titano. I singoli incontri non hanno un tempo fissato ma termineranno solo quando uno dei due lottatori, il perdente, toccherà per primo il terreno con qualsiasi parte del corpo diversa dalle sue mani o dai suoi piedi. Prima di iniziare i due lottatori eseguono il devekh, o danza dell’aquila, mentre alla fine del combattimento il perdente effettuerà il thakimaa ogokh, il cui gesto simboleggia il riconoscimento del vincitore e la pace tra i due avversari.

Al vincitore non spetterà alcun premio o ricompensa se non solo l’onore di essere considerato e rico­nosciuto per sempre come l’uomo più forte e di potersi fregiare di un titolo onorifico. Un lottatore che vince cinque combattimenti consecutivi riceve il titolo di “falco” (nachin), se ne vince sette “elefante” (zaan), e colui che rimane imbattuto e vince tutti e nove round “leone” (arslan), ma il titolo più ambito è, se si vincono due Naadam consecutivi, il titolo molto glorioso di “Titano” (avarga).

La stessa palma spet­terà al miglior cavaliere e al miglior tiratore o tiratrice. Le gare di tiro con l’arco risalgono all’XI secolo, tuttavia a quel tempo si svolgevano a cavallo, una abitudine che si è ormai persa. I bersagli composti da cilindretti di colore diverso si trovano a 75 metri dal tiratore, a 60 metri per le tiratrici. L’arciere che colpisce il maggior numero di bersagli viene dichiarato vincitore.

Ma tra tutte le gare la più avvincente e più seguita è comunque la corsa dei cavalli in cui vi partecipano giovanissimi cavalieri, di non meno di otto anni e non più di do­dici di ambo i sessi, che si cimentano fino allo spasimo su un percorso di una trentina di chilometri. Tutti sono lì ad osservare ed incitare figli, nipoti o cugini in questa faticosa cavalca­ta che ricorda le epiche gesta dei cavalieri mongoli.

Ed è tra l’entusiasmo di questa folla, che poi alla fine della corsa intona un canto all’ultimo classificato per augurargli fortuna per l’anno prossimo, che si sco­pre l’impenetrabile carattere di questa gente all’apparenza poco espansiva, ma che poi si dimostra composta di individui gioiosi e amanti del buon vivere. Solo all’apparenza, infatti, i mongoli sembrano rudi e oltre ad essere degli squisiti ospiti tra loro prefe­riscono sempre risolvere le questioni con raziocinio e quasi mai arrivano all’atto di forza, e la loro proverbiale ospitalità li spingerà a farvi entrare nelle loro ger (da noi conosciute come yurte) per gioire con loro della festa al suono dei morin-huur e dei loro canti di gola, il khoomi, di cui sono maestri.

E tra un bicchiere di arkhi, la loro vodka distillata con l’aggiunta di latte di cavalla, e un assaggio di buuz, i ravioli con carne di montone, ci si perde in questo ambiente naturale stupendo ed ancestrale che ci riporta alle origini del mondo.

I vasti paesaggi selvaggi sono accompagnati solo dall’immenso “Eterno Cielo Blu” (Tenger) il dio supremo del cielo blu adorato dai pastori nomadi che considerano cielo e terra sacri, come le infinite forze spirituali della natura e gli spiriti che le circondavano, permeando inconsapevolmente la vita di tutti i giorni di convinzioni sciamaniche e riflessi di un antico buddismo.

In Mongolia si incontreranno luoghi di incomparabile bellezza dove nulla ostacola lo sguardo fino all’orizzonte. In questa pace, dove l’unico rumore è il suono del vento sui fili d’erba, si scoprirà l’antico stile di vita degli allevatori di cavalli e si avrà modo di comprendere come la vita del nomade sia legata sostanzialmente alla sua yurta e al suo bestiame.

Da sempre i pastori mongoli hanno saputo interagire con il ciclo naturale della vita dei greggi e delle mandrie tantoché in questa parte del mondo, dove la concentrazione di animali da allevamento è la più alta di tutto il pianeta, non si è mai adottato l’uso di stalle in quanto piuttosto che modificare le abitudini degli animali l’uomo ha preferito adattare se stesso alle loro esigenze, seguendoli nelle loro migrazioni stagionali.

Viaggiare in Mongolia una terra di contrasti e di impareggiabili diversità geografiche, un mondo autentico che emoziona regalando esperienze indimenticabili, richiede però le doti tipiche di un viaggiatore: pazienza e capacità di adattamento.

I turisti che richiedono il massimo comfort e puntualità dovrebbero prendere in considerazione il fatto che, senza essere una avventura “estrema”, un viaggio attraverso la Mongolia necessita indiscutibilmente di apertura mentale e flessibilità. Il clima è molto variabile e le condizioni di vita al di fuori della capitale sono rustiche. Tuttavia tali situazioni rappresentano spesso il fascino e la bellezza di un viaggio nelle steppe. Le condizioni di viaggio nella steppa e nel deserto possono essere a volte difficili, anche se i tour non richiedono particolari competenze e non comportano particolari sforzi fisici. Ci vuole come già detto pazienza e capacità di adattamento. Non dimenticate che questi viaggi vi permetteranno di visitare una delle aree climaticamente più estreme, scarsamente popolate, e meno sviluppate del pianeta.

Ma la Mongolia rimane una meta favolosa e unica per tutti coloro che amano la natura selvaggia, l’ambiente incontaminato e, soprattutto, semplici contatti umani con i pastori nomadi, eredi di una cultura e di un stile di vita che si perde nella notte dei tempi.

 

Mongolia

 

Foto: pop_gino (Adobe stock) e archivio Levi

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