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Quella volta che andai alla ricerca dell’incontro con il popolo yanoama, navigando sulle acque del Rio Siapa, affluente dell’Orinoco. E rimanemmo per due giorni senza carburante e senza provviste di cibo. Ci pareva di essere dei Robinson Crusoe 

 

Confuso tra cielo e acqua avevo spesso l’impressione di aver smarrito la nozione del tempo. Il mio “bonguito” scivolava leggero sulle acque dell’Orinoco, nel Territorio Federal Amazonas, in Venezuela. Allora – era la fine degli Anni Sessanta – la mia vita scorreva velocemente sulle acque dei fiumi dell’Amazzonia ed ero riuscito così tanto ad ambientarmi in quei luoghi, che gli abitanti dei vari villaggi sulle rive dei fiumi (Piaroa, Maquiritari, Guaycas…) mi chiamavano con il soprannome “Indio blanco”. Lo scopo di questo mio viaggio era la risalita del Rio Siapa, affluente orografico sinistro del Canal Casiquiare. Da informazioni avute tramite il Ministero di Giustizia, Dipartimento protezione Indios, apprendevo che sorvolando l’area con velivoli della Forza Aerea Venezuelana, erano state individuate delle aree disboscate che rivelavano la presenza di vecchi “sciapuni” abbandonati, le grandi capanne collettive dove si svolgeva la vita sociale degli Yanoama, alcuni dei quali risultavano ancora abitati. Il fiume era letteralmente invaso dalla presenza di insopportabili mosquitos, minuscoli ma micidiali insetti le cui punture creano un estremo fastidio, provocando pruriti e infiammazioni tali da alterare, in alcuni casi, l’equilibrio psicofisico di un individuo.  

Luisito, il mio compagno di viaggio 

Devo dire che godevo di un’ottima salute dovuta alle tante mia attività sportive (speleologia, paracadutismo, alpinismo) e anche a una buona dose di fortuna, sembrava fossi dotato di una sorta di immunità: venivo anch’io punto dai mosquitos ovviamente, ma senza accusarne gli effetti devastanti, quali pruriti, gonfiori e febbri che colpivano la maggior parte delle persone dei gruppi da me accompagnati.  

Con Luisito, indio di etnia maquiritari, mio compagno di viaggio, risaliamo il Siapa per oltre cento chilometri fino a dove inizia a restringersi e la navigazione diventa difficoltosa a causa di una lunga serie di rapide che devono essere superate con non poca fatica e perizia. Evitiamo questo tratto del fiume camminando in foresta sino a dove torna a essere lento e navigabile. La meta del mio viaggio pare avvicinarsi. Proseguiamo la navigazione sino a incontrare un piccolo affluente, il Manipitare, che si immette nel Siapa. Siamo in un’area totalmente inesplorata. L’adrenalina sale a mille! Ed è con questa carica emotiva che risaliamo ancora per un giorno il Manipitare sino al Caño Moni, suo piccolo affluente. Iniziamo a penetrare con la canoa un tunnel di acqua e di vegetazione da cui siamo avvolti, dove la luce fatica a fare breccia. La risalita si fa via via più difficoltosa soprattutto a causa della scarsità d’acqua, dei massi affioranti e dei tronchi galleggianti. Il fiume diventa sempre più stretto, in alcuni tratti è poco più di un torrentello, sei/sette metri di larghezza.  

Sulle rive e sulle piccole spiagge scorgo le tracce lasciate dagli Yanoama: i resti di un ponte di liane, una graticola di rami servita ad affumicare la carne di tapiro o di altri animali della foresta, grandi foglie di palma arrotolate come cartocci per contenere il povero cibo costituito – nella stagione delle piogge, quando la caccia diventa difficile – da insetti, molluschi e larve di fiume. Avvertiamo la loro presenza in ogni sospiro della foresta: una traccia umana discreta, timorosa, palpabile, ma invisibile. Forse un retaggio antico, la paura, il ricordo di tragedie mai dimenticate, di contaminazioni temibili e temute, di una storia che ancora si ripete, impedisce l’incontro da me voluto con tanta caparbietà. 

Cercatori di oro e Fazendeiros

Pesano gli eccidi perpetrati dai cercatori di diamanti e di oro che, utilizzando il mercurio per il processo di affinamento del prezioso metallo, avvelenarono le acque. Pesano i massacri compiuti dai fazendeiros, allevatori alla ricerca costante di pascoli, che distrussero interi habitat costringendo gli indios a lasciare le loro terre e rendendosi spesso responsabili di veri e propri genocidi. Pure in assenza di mezzi di comunicazione, le notizie di queste tragedie giunsero sino alle comunità più isolate che, intimorite dagli spaventosi racconti, indietreggiarono sempre più nel buio della foresta, rifiutando qualsiasi contatto con l’uomo bianco. 

Tale è l’entusiasmo per questa grande avventura che mi avrebbe portato nuovamente a incontrare la “preistoria vivente”, che continuiamo a risalire il fiume senza renderci conto che il carburante stava per esaurirsi e in ogni caso non sarebbe stato sufficiente per il ritorno. Pagheremo cara questa leggerezza. L’incontro con gli Yanoama, malgrado la determinazione e gli sforzi, non avverrà, non questa volta. 

Vinti dalle difficoltà, dalla stanchezza e dall’inclemenza del clima, iniziamo a ridiscendere il Caño Moni fino a raggiungere il Manipitare. Quando gli ultimi raggi del sole lanciano riflessi dorati sulle acque, il rumore dell’elica rallenta sino ad arrestarsi del tutto. “Mira Capitan Willy, nos quedamos sin gasolina! Que vamos hacer? No tenemos comida ni agua, los raudales donde dejamos la reserva de gasolina y de comida estan por lo menos a tres dias de navegación!”. Rispondo: “Mira, Chico, no te preocupes! Estas con el Indio blanco”, e Luisito: “El Indio blanco sin gasolina no sirve para nada!”.  

La coda di Caimano cotta sul fuoco 

Rimaniamo così senza carburante a due giorni di navigazione dalle rapide del Rio Siapa dove, in precedenza, avevamo lasciato una tanica di benzina insieme a una piccola provvista di cibo. Dobbiamo pagaiare a mano, fortunatamente con il favore della corrente. Sopraffatti dalla fatica, cadiamo entrambi in uno stato di dormiveglia con la piroga che, sospinta dalla corrente, naviga accostandosi a volte pericolosamente alle rive, urtando contro i tronchi. Il bravo Luisito, utilizzando un vecchio e arrugginito fucile, riesce a cacciare un paquì, specie di grosso gallo di montagna che mangiamo arrostito; non mancherà, nella dieta di quei giorni, la coda di un baba (caimano) tagliata a fette e cotta sul fuoco. L’acqua, qui, non mancava: fortunatamente, dopo tanti viaggi sull’Orinoco, mi ero abituato a bere anche quella del fiume senza particolari conseguenze. L’esperienza della discesa del fiume col favore della corrente, al di là delle difficoltà incontrate, fu per me straordinaria: un contatto naturale non alterato dal rumore del motore che mi consentì di sentire con maggiore chiarezza i mille suoni della foresta e avvicinarmi silenziosamente ai caimani, che sulle rive del fiume sostavano semisommersi in attesa delle loro prede. Illuminando con la torcia le rive, potevo osservare al buio i loro occhi rossi e luminescenti. Quella piccola impresa mi fece comprendere le difficoltà che gli indios dovevano quotidianamente affrontare. Eravamo rimasti due giorni senza carburante e senza provviste di cibo, ci pareva di essere dei Robinson Crusoe… Tutto ciò mi fece riflettere sul grande isolamento in cui gli Yanoama vivevano da millenni. 

Foto:  Shutterstock

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Willy Fassio

Willy Fassio, fondatore de Il Tucano Viaggi Ricerca. La sua storia inizia proprio sull’Orinoco. Da questa passione per l’America Latina nascono i suoi viaggi culturali in Sud e Centro America.