Lekwe correva da ore nella foresta. I suoi inseguitori erano vicini: gli sembrava di sentirli respirare. Ma doveva scappare verso il mare, inseguendo il profumo del sale, e raggiungere così la sua gente. Aveva ancora negli occhi l’orrore della scena avvenuta al villaggio. Mai avrebbe dimenticato gli uomini armati di lance, pugnali asce che, alle prime luci dell’alba, avevano fatto irruzione nelle capanne. Avevano ucciso sua madre, sua nonna e catturato tutti i giovani, uomini e donne. Lui era riuscito a fuggire. Aveva capito subito: erano i crudeli guerrieri, al soldo dei re che vivevano nel leggendario palazzo lontano giorni di cammino, che da anni setacciavano la regione in cerca di uomini. Li facevano schiavi e poi li vendevano a quei soldati dalla pelle bianca che arrivavano dal mare a bordo di immense navi dalle vele bianche: ci caricavano i suoi fratelli neri e poi li facevano sparire per sempre.
Fuggiva Lekwe. E forse sarebbe riuscito a raggiungere quel grande lago vicino al mare, dove una parte della sua tribù, i Tofinu, si era rifugiata. Un universo liquido dove gli scampati alla schiavitù avevano iniziato a costruire le loro case. Proprio sull’acqua. Perché solo l’acqua poteva salvarli: un tabù impediva infatti ai loro inseguitori, i negrieri Fon, anche solo di sfiorarla. Da allora, e sono passati tre secoli, i Tofinu non l’hanno più abbandonata. E, proprio sull’acqua, hanno costruito la loro città-rifugio: Ganvié.
Oggi le poche capanne di bambù – costruite su pali di tek e con il tetto di foglie – sono diventate migliaia e si estendono per diversi chilometri sul Lago Nokué, a pochi chilometri da Cotonou, lungo la costa nel sud del Benin. Ganvié si trova in posizione defilata: non è visibile né da terra, né dal mare e, ancora oggi, si può esplorare solo in barca. Oggi qui vivono circa venticinquemila persone, disperse nella miriade di piccoli villaggi che punteggiano
la laguna. E trascorrono l’intera vita a qualche spanna dalla superficie salmastra del lago. Tutte le abitazioni, la scuola, l’hotel, il bar, il negozio di souvenir, persino l’ufficio postale, sono palafitte di legno e di bambù. Non esistono ponti, passerelle, strade. Ci si sposta in barca, piroga, o semplicemente a nuoto. Solo i morti tornano alla terraferma, sepolti nell’unico isolotto che sporge dalla superficie di quel tanto che basta per non essere sommerso dalle maree.
Quello che colpisce immediatamente di Ganvié è la mancanza di quei rumori che ormai fanno parte della vita di tutti i giorni: il clacson, il motore di un’auto. E la presenza invece di suoni naturali, filtrati dallo sciabordio onnipresente dell’acqua. Una sensazione acustica che proietta in un’altra dimensione, dove il silenzio è denso. E dove le chiacchiere della gente, le urla dei bambini, sono parte integrante di questo universo.
In barca ci si perde nel dedalo di palafitte, scivolando lentamente sui tortuosi sentieri d’acqua limacciosa. La superficie del lago è punteggiata da grandi bastoni che segnalano le nasse e da recinti di foglie di palma. Sono una sorta di trappola verde: le piante attirano i pesci e quindi periodicamente il recinto viene infoltito dai pescatori, che qui catturano così sempre numerose prede. D’altronte, Ganvié e i suoi abitanti non possono che sopravvivere di pesca…
Il silenzio viene rotto dai richiami intermittenti dei bambini, che cercano di attirare l’attenzione gridando “yo vo, yo vo!”, “bianco, bianco!”. Giocano nell’acqua, alcuni sono piccolissimi: al massimo tre-quattro anni. Nuotano come pesci, ovviamente. Perché qui, prima che a camminare, imparano a nuotare. E poi, anziché con la bici, imparano ad andare in barca e a remare. Superati i bambini, l’orizzonte si è aperto allo sguardo. Si riesce così a vedere un’intera sfilata di case che si specchiano nell’acqua, ammirando quasi per intero lo spettacolo di Ganvié che, ormai da secoli, continua a respirare a qualche centimetro dalla superficie dell’acqua. Vivendo un ritmo lento, tutto africano, regala
quell’atmosfera surreale che la rende quasi un miraggio. Una nebulosa che non appartiene a nessun luogo. E a nessun tempo.
Foto: robnaw – Adobe Stock