La casa di nessuno - Tucano Viaggi Skip to main content

Così viene chiamato il mercato in Africa. Perché è un territorio neutro, un luogo dove tutti devono negoziare non solo le merci, ma anche la propria identità etnica e culturale. Con le sue imposizioni. Di gerarchia: le persone importanti al centro, i marginali in periferia. Di genere: da sempre, le donne gestiscono il piccolo commercio. Di opportunità: il bestiame si tratta al di fuori, in quanto impuro e pericoloso. Dall’Etiopia al Ghana, dal Togo al Niger: è giorno di mercato!

 

Testo di Alberto Salza

 

 

Nel mercato di Makallé, in Etiopia, esiste una sottile linea bianca. È fatta di sale e farina, impastati nella terra rossa da mille anni di scambi feroci. Qui, con lunghe file di dromedari, gli Afar della depressione dancala portavano sull’altopiano il sale necessario al bestiame e agli agricoltori del Tigray (o Tigré), i quali lo barattavano con cereali. Nessuno dei due gruppi vivrebbe senza l’altro, eppure lo scambio è violento come una rissa. Da una parte, gli Afar, con i capelli che paiono pettinati con i petardi, predoni con le bandoliere intrecciate sul petto nudo (uomini e soprattutto donne, dato che il mercato africano è al femminile); dall’altra, i duri tigrini con le dame dalle ampie vesti bianche, consci della propria antica civilizzazione. In mezzo, vidi una catena umana fatta di poliziotti: attraverso di loro, letteralmente, fluivano le merci. Il vociare era insopportabile, quasi come gli spintoni e le reciproche mimiche aggressive. A un tratto, finite le merci, si fece silenzio, e le due parti si separarono, entrambe felici del bottino. Il mercato era chiuso, e il capo della polizia mi disse: “Se mi ripeti ancora una volta che vuoi andare in Dancalia con una carovana travestito da Afar, ti sparo”.

Sedentari contro nomadi

Tranquilli: la scena appartiene al secolo scorso, e in ogni caso nessuno si faceva del male. Si trattava della ritualizzazione del perpetuo scontro tra nomadi e sedentari; non potevano fare a meno uno dell’altro, ma non si doveva sapere in giro. Comunque, conoscevo un proverbio afar: “Senza essere stato chiamato sei venuto; senza esserti saziato sei partito: hai sbagliato due volte”. Rimasi sull’altopiano. Oggi gli Afar sono guide e difensori di meraviglie paesaggistiche. A Makallé c’è perfino un supermarket. O no?

In Africa, il mercato è un territorio neutro; lo chiamano “la casa di nessuno”, un luogo dove tutti devono negoziare non solo le merci, ma anche la propria identità etnica e culturale. Personalmente lo definisco come un “confine-gelatina”, là dove gli elementi si trovano in entanglement: intreccio, non-separabilità, compenetrabilità; lì, ci si riconosce nella semitrasparenza, ma non si arriva al contatto fisico. Le mani toccano le merci, che passano in altre mani senza che queste quasi si sfiorino.In questo commercio, da tempo il baratto è stato sostituito dal denaro, che porta il tutto a una chiara triangolazione, ma cancella le sottigliezze di potere del mercato.

La polvere d’oro spetta al Re

Nel mercato di Kumasi, in Ghana, il re degli Asante aveva un tempo il diritto su tutta la polvere d’oro che cadesse al suolo durante le transazioni. In un giorno di ricco riciclo, la setacciatura del terreno produsse quasi 30 chili d’oro (mille once).

Il terreno stesso dove viene allestito il mercato ha qualcosa di speciale, in quanto scelto dagli antenati. Sui monti del Togo, un anziano mi disse: “Ogni mercato ha un suo principio spirituale. Mica è un campo di calcio!”. Se lo “spirito del mercato” non funziona, bisogna cambiare posto, sempre seguendo il suo valore immateriale nell’universo degli antenati. Da questo concetto derivano i continui fallimenti delle moderne burocrazie e delle Ong che intendono razionalizzare gli scambi e le economie tradizionali: ovviamente mancano di spirito.

La complessità del mercato africano è data anche dalle sue imposizioni. Di gerarchia: le persone importanti al centro, i marginali in periferia. Di genere: da sempre, le donne gestiscono il piccolo commercio. Di opportunità: il bestiame si tratta al di fuori, in quanto impuro e pericoloso. Tutto questo intreccio di permessi e divieti fa sì che il mercato non possa essere permanente: Afar e Tigrini possono sopportarsi per intervalli di tempo limitati, non ogni maledetto giorno. Da qui la diffusione del sistema di mercati a frequenza periodica (in genere ogni quattro-sei giorni). In tal modo, le merci prodotte nei luoghi remoti possono accedere, a turno, a luoghi di raccolta, di scambio e di festa. Si costruisce così un tempo sociale per incontri, risoluzioni di dispute e conflitti, contratti per matrimoni, e così via. A sera, tutti a casa e, con un sospiro di sollievo, si torna alle attività e all’identità rassicurante di ogni giorno.

Il prezzo delle arance

Ovviamente, dato che al mercato debbo negoziare identità, è imperativo che contratti i prezzi. Si tratta di uno scambio di parole. E, le parole, in Africa, hanno anche un valore materiale. Più si parla e più cala il prezzo, secondo parametri che a noi occidentali sono del tutto oscuri. Al mercato di Niamey, in Niger, mi trovai per il trentesimo giorno a contrattare con un ragazzino il prezzo delle arance (tra l’altro, portate a piramide attraverso la folla su di un vassoio tenuto in equilibrio sulla testa). “Senti un po’” gli dissi. “Ieri, e gli altri giorni prima, ho comperato le arance da te, sempre allo stesso prezzo e sempre dopo ore di discussioni. Lo so quanto costano le arance”. “Oggi è un altro giorno”, mi disse, con quel sorriso abbacinante con cui gli africani oscurano il sole. Decisi di vendicarmi. Ad alta voce gli dissi il proverbio che i Wolof del Senegal usano per insegnare la modestia: “Se muori al mercato, vuol dire che partecipi tu stesso alla tua morte”.

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Alberto Salza

Antropologo ricercatore free lance su temi evolutivi ed ecologici. Dal 1983 collabora con il Dipartimento di Scienze Biologiche, Antropologiche e Archeologiche dell’Università di Torino. Da...