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Lanelito alla libertà deve essere una questione genetica nella famiglia Aung San. Concetti quali giustizia e democrazia trasmessi con il DNA dal padre Bogyoke Aung San alla figlia Aung San Suu Kyi. La bimba aveva solo 2 anni quando, nel 1947, il padre fu assassinato dal governo militare birmano a causa della sua attività politica democratica e antimilitarista. Ma oggi, dopo anni di diritti negati, violenze, isolamento, repressione e politiche economiche disastrose, la lotta di Bogyoke per il Myanmar si conclude con la vittoria di Aung San Suu Kyi, che ha dedicato la propria vita alla causa del padre. Il pugno di ferro militare, durato oltre 30 anni, è finito e per la Birmania comincia una nuova era. Tra i tetti dorati delle pagode di Yangoon è tornata l’effige del “Padre della Patria”, proibita durante la dittatura e l’abitazione di Suu Kyi, in cui la Premio Nobel per la Pace trascorse anni agli arresti domiciliari, è meta di pellegrinaggio. La sua figura esile, la non violenza, la pazienza testarda tipica del mondo asiatico contrastano con lo spirito combattivo e irriducibile che hanno condotto Aung San Suu Kyi al trionfo democratico ancora una volta, venticinque anni dopo che la giunta militare aveva annullato l’esito elettorale. La fine della dittatura militare, che nei decenni ha alimentato odi etnici e traffici illeciti di ogni genere nel famigerato triangolo d’oro, lascia un Paese in pezzi. Nelle regioni nord orientali di Shan e Kayah, storicamente ribelli e frammentate, soggette nei secoli a migrazioni di popoli confinanti, sopravvivono decine di gruppi etnici disomogenei, la cui convivenza è sempre stata problematica.

Myanmar, i pescatori Intha del lago Inle. Foto di Angela Prati

 

Campioni di equilibrismo, i pescatori Intha del lago Inle, remano con una sola gamba sulle affilate piroghe. Detti “i figli del lago”, si sono adattati perfettamente alla vita lacustre costruendo villaggi palafitticoli con orti galleggianti. Nel magico labirinto formato dall’incontro del fiume Beluo Chaung con il lago, tra vestigia di antiche pagode e villaggi sospesi, si incontra anche il popolo Pa-O, gente dal carattere socievole che anima i mercati e si distingue per il tipico copricapo femminile di colore rosso a quadretti.

Le atmosfere mistiche fatte di luci crepuscolari, riflessi e ombre nelle nebbie, campanelli nel vento che celano templi antichi e Buddha dormienti lasciano spazio a una regione collinare impervia, il Kayah, a sud del lago Inle. Qui abita l’etnia più stravagante del Myanmar, i Padaung. Le loro donne portano per tradizione, fin da bambine, pesanti anelli di ottone attorno al collo. Aumentano gli anni, aumentano gli anelli e il collo si allunga… per questo sono tristemente note col nome di “donne giraffa”, le più gettonate dai turisti! Le foreste e le montagne del Kayah sono punteggiate di villaggi Karen “Rossi”, con il caratteristico mantello scarlatto. Nel totale isolamento, i Karen hanno mantenuto integro un sistema di credenze superstiziose legate ai “Nat”, spiriti benigni o maligni che interferiscono con la vita degli uomini e richiedono sacrifici e cerimonie. Anche le loro abitazioni, costruite su palafitte, sono protette da misteriosi feticci e amuleti.

Myanmar. Donna di etnia Padaung. Foto di Angela Prati

 

Nell’est dello Shan si è sempre coltivato il papavero da oppio. Chengtong, il capoluogo della regione è stata per anni al centro del fuoco incrociato dei signori della droga ma oggi, nelle sue strade tempestate di pagode, regna la pace. Questa travagliata regione di confine fra Cina, Thailandia e Laos ha dato rifugio, nei secoli, a decine di minoranze etniche dai costumi unici. Le tribù di montagna sono collegate tra loro da una fitta rete di sentieri percorribili solo a piedi. Nei mercati si incontrano donne di varie etnie, come le “silver” Palaung che indossano una preziosa, alta cintura d’argento e le Akha, che risaltano per il luccicante copricapo decorato con palline argentate e antiche monete. Questo popolo, di origine sino-tibetana, è diffuso in tutto il sud-est asiatico e nella Cina meridionale. Dedito all’agricoltura distruttiva del “taglia e brucia”, gli Akha sono anche abili cacciatori e raccoglitori. Gli Enn popolano le stesse colline e si riconoscono per il vizio di masticare la noce di betel che a lungo andare, annerisce indelebilmente la bocca; neri sono anche i loro costumi. La vita, in queste zone remote, scorre fuori dal tempo, segue i ritmi scanditi dalle stagioni e la tradizione rimane ancora l’unica regola. Le antiche e meravigliose vestigia di Bagan sono solo l’ultima testimonianza di grandi civiltà che dal III secolo A.C. si contesero questo splendido territorio irrorato dall’Yrrawaddy e dai suoi affluenti. Una pianura strategica con un fiume interamente navigabile e protetta a nord dalle montagne. Le necropoli di Bayektano e Sri Ksetra sono la culla della cultura del Myanmar, una cultura che si è assopita negli ultimi decenni tra le costrizioni della dittatura, ma che oggi potrebbe lentamente tornare a fiorire. Se la genetica di libertà e progresso della famiglia Aung San darà finalmente i suoi frutti, il difficile sviluppo che attende il Myanmar potrà sperare in un futuro pacifico e più democratico. Solo così il dolce popolo birmano tornerà a sorridere al mondo.

In apertura Myanmar. Foto di Angela Prati.

Articolo pubblicato su Kel 12 Circle Magazine #03.

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