Isola Rossa, Grande Terre: qualsiasi nome si dia al Madagascar non basta a contenere la stupefacente biodiversità di quest’isola unica, “salpata” dalle coste del Mozambico 150 milioni di anni fa.
Non hanno uguali gli uomini, un incredibile melting pot di popoli arrivati dall’Indonesia, dalla Malesia, dall’India, dalla penisola Arabica, dall’Africa nera, a formare 18 etnie dai tratti somatici diversissimi, che parlano una lingua lontana da qualsiasi altra, con radici in un dialetto del Borneo.
Non hanno uguali gli animali, creature di un pianeta in una galassia remota. Come i lemuri, le protoscimmie dagli occhi dorati e tondi, il geko-foglia perfettamente mimetizzato con i tronchi d’albero, la Brochesia Minima, il camaleonte più piccolo del mondo. Non hanno uguali le centinaia di orchidee endemiche, lampi di colore distonico nel verde lustro della foresta primaria di Ranomafana e i millenari Baobab, che a Morondava appaiono come torri a guardia della vasta savana.
In Madagascar non ha uguali neanche Dio, Andria Manitra, il “principe profumato”: un appellativo poetico per il grande plasmatore di una natura potente che conserva in sé un’impronta ultraterrena. L’animismo malgascio vede i razana, spiriti degli antenati, in alcuni lemuri, uccelli, pesci, oppure in luoghi come le tombe o come i laghi fra le colline di Nosy Be. Sono fady, tabù, quindi non ci si può avvicinare.
Gli antenati sono gli intermediari con un Dio capriccioso, per questo occorre ingraziarseli con il rito del famadihana, la riesumazione delle loro ossa per ungerle di grasso di zebù e fare festa con tutta la comunità. E per questo le tombe sono spesso le uniche case in muratura persino presso i Mahafaly, etnìa nomade o i Vezo, i pescatori del sud che vivono in capanne di legno e palma sulla spiaggia di Anakao. «Per noi guerrieri Bara» racconta invece Gabriel, guida del Parco Nazionale dell’Isalo, «la sepoltura è l’esercizio di coraggio di una arrampicata sulle pareti delle montagne, nelle cui fenditure sono messi i defunti, in alto vicino a Dio».
L’Isalo è un massiccio di 81.000 ettari, antico di 200 milioni di anni. Un’opera divina land art, esplosione in technicolor di roccia rossa, gialla, nera, da percorrere a piedi fra canyon, pinnacoli e piscine naturali. Il Creatore ha plasmato nella pietra forme fantasmagoriche: quella di una impettita sovrana, la Reine de l’Isalo, di una maestosa finestra entro cui s’insinuano i raggi del sole al tramonto, del “berretto del Vescovo”, titanica roccia nera strapiombante sulla pianura.
Sotto lo sguardo implacabile di Masoandro, l’Occhio del cielo, il sole, la natura malgascia può essere anche divinamente generosa e regalare zaffiri e pietre dure, tanto da provocare una vera e propria “corsa all’oro” sulle rive del fiume Ilakaka. L’Occhio del cielo penetra con i suoi raggi sotto la superficie del mare nel canale di Mozambico, che da nord all’estremo sud nasconde un tesoro di coralli variopinti, fra cui si scoprono, come gioielli incastonati, pesci pappagallo, pagliaccio, napoleone. Il sole illumina le acrobazie delle balene, che dall’Antartico vengono a riprodursi all’isola di Sainte Marie, un tempo rifugio di bucanieri.
Sotto il sole dell’altopiano centrale, disegnato dai terrazzamenti delle risaie, si colgono i vàan dalana i “frutti della strada”. Sono i manufatti delle donne Antemoro, di origine araba, che a Ambalavao fanno con le fibre della pianta di Avoha una carta romantica, decorata con fiori e foglie. Sono eleganti utensili in corno di zebù e raffinati intarsi in legno di ebano, palissandro, bois de rose degli ebanisti Zafimaniry di Ambositra. Sono le borse e cappelli di rafia, la fibra di una palma che solo le donne malgasce tessono, ma che ha conquistato l’haute couture di tutto il mondo.
Foto di copertina: ptashkan (Adobe Stock)