“Erano i miei padri, i nostri padri,” afferma Hassan indicando sé e i suoi figli, i fratelli, la sua famiglia intorno a lui, là nelle tende smunte, affaccendati tra le pecore e il mugghiar dei cammelli. Parla dei nabatei, la gente che ha scolpito quelle grandiose tombe e quei templi dall’arenaria ocracea là, tra quelle gole e quelle crepe drappeggiate a picco, e pavimentate a sabbia e ciottoli.
Son capitato qui per caso, vagabondo nel labirinto di questi canaloni e queste antiche valli, che dal letto secco dello Wadi Rum, in Giordania, si dipanano fin oltre il confine saudita lontano, giù fin quasi nel cuore dell’Hegiaz, la regione storica, il sacro suolo d’Arabia, di Medina, della Mecca.
Non c’è voluto molto per essere invitato a un caffè al cardamomo, servito su una stuoia. Hassan è un beduino, uno bdul, dice. Ha fatto la guida a Petra per anni, ma ora è tornato ai suoi cari, alle sue bestie, alla sua vita nomade. Nel suo inglese cantilenato ci tiene a raccontarmi le gesta di coloro che sostiene essere i suoi avi: i nabatei. Non ci sono studi che comprovino questa suggestiva discendenza, ma mi piace dar fiducia a chi si dice pronipote. D’altro canto, anche noi facciamo lo stesso con quel Cesare, anzi con quel Traiano che il loro regno s’annetté.
Mi piace stare ad ascoltarlo. Sembra una nenia, di quelle dei griot, i cantastorie d’Africa, e mi fa perdere in luoghi remoti, a me già noti, o che mi piace immaginare. Mi porta indietro fino ai grandi re di Persia (VI-IV secc. a.C.), quando i suoi avi, una delle tante tribù delle steppe del cuore inquieto dell’Arabia Deserta, dice, si spostarono a cercar pascoli nuovi qui, verso il Mar Morto, verso il Giordano. Erano beduini, proprio come lui, e campavano di furti, di razzie. Questo, non è lui a cantarlo, ma Diodoro Siculo, lo storico del I sec. a.C.
Popolo fiero, dunque, che resisté agli attacchi dei potenti vicini, senza mai cedere, anche grazie alle sue tecniche di sopravvivenza nel deserto, cavando canali e creando cisterne segrete per raccogliere l’acqua piovana. In quei secoli sopravvissero a babilonesi, egizi, persiani, e poi macedoni e, ancora, ai parti. Poi giunsero i romani che, nel I sec., all’epoca in cui Amman si chiamava Philadelphia, incorporarono loro e la provincia d’Arabia Petrea, ossia l’odierna Giordania e oltre, con tutti i suoi tesori. Correva l’anno 106. A quei tempi, quei predoni s’erano già fatti Stato, avevano un re, città come Reqem, ‘la variopinta’, nota già allora come Petra, o Bosra, ora in Siria, o anche Hegra, a sud, nel cuore dell’Hegiaz, in Arabia Saudita, da meno d’un decennio, concessa agli archeologi, e di recente aperta al pubblico di fuori. E poi templi, palazzi… e tutti quei magnifici sepolcri monumentali scavati nelle rocce attorno alle sue prospere città. È tutto lì. Si può ancora vedere, toccare.
Era stato grazie al controllo di gran parte della Via detta dell’incenso. Questa, dall’Arabia Felix, il sud della penisola Arabica, ora Yemen e Oman, luoghi dell’incenso e della mirra, recava spezie e aromi dall’Oriente, dal Corno d’Africa che poi in groppa a enormi carovane di dromedari e d’asini, prendevano la via del nord, diretti ai ricchi mercati del Mediterraneo. Per secoli i mercanti nabatei furono al fianco dei ‘colleghi’ minei – gente del sud, che ora si direbbe yemenita – accompagnando le merci su e giù per caravanserragli e pozzi della penisola, portando a spasso anche i loro dei pagani, come – uno per tutti – Dushara, il dio supremo, nel tempo assimilato, come gli altri, agli Zeus, alle Atena, ai Dioniso di Grecia. Popolo sincretico, furono capaci di rielaborare credi religiosi e stili architettonici e artistici, tra divinità egizie, persiane, siriane, il dio d’Israele o quello cristiano, colonne corinzie, frontoni romani e immagini di genuina stirpe d’Arabia. Parenti, forse, di quelli che Maometto distrusse in quella antica Kaaba meccana che poi divenne il centro dell’Islam. Una mescolanza ghiotta, ancora misteriosa, per chi s’avvicina per la prima volta al mondo arabo delle origini. Quello di cui ancora poco si sa, dove scarse sono le fonti locali. Come quelle nabatee, di solito trovate incise su pietra in caratteri che poi faranno parte del rimpasto che ha dato origine all’alfabeto dell’arabo moderno.
Hassan ha ormai terminato da tempo, e s’è rimesso a sorseggiare il suo caffè, ma il mio volo d’uccello è ancora in corso, e di valle in valle, di crepaccio in crepaccio, di battaglia in battaglia, mi ci vorrà un bel po’ per decidermi a ritornare a terra e a smettere di superar confini spazio-temporali in questa terra piena d’origini che ancora stiamo aspettando di svelare.
Foto di copertina: klemenr (Adobe Stock)