Chiudete gli occhi. E assaggiate con la lingua, con il naso, con il palato un goccio di vino. Vino cileno. E, in un solo sorso, assaporerete un mondo intero. Un mondo tutto racchiuso in un bicchiere, raccontato dal profumo intenso della sua terra, dei suoi fiori e dei suoi frutti, e dal colore vivo, rosso come il deserto di Atacama, il più arido del mondo, o bianco come i ghiacci della Patagonia. “Nettare degli dei, conforto dei mortali, il vino è una meravigliosa pozione che ha il potere di allontanare le preoccupazioni e di offrirci, anche solo per un istante, la visione del paradiso.” Così la scrittrice Isabel Allende – peruviana di nascita, ma cilena d’adozione – descrive e parla nel suo libro Afrodita dello “spirito del vino”.
Il flagello della fillossera
Un vino speciale quello cileno, dalla forte personalità, frutto prezioso di una terra speciale. Perché il Cile è una cassaforte naturalistica lunga quasi cinquemila chilometri, separata da barriere insormontabili dal resto del continente latinoamericano: le Ande a est, con cime che sfiorano i settemila metri, costantemente battute dai venti; i grandi e lunari deserti salati a nord, al confine con Perù e Bolivia, uno degli ambienti più aridi del mondo; l’Oceano Pacifico a ovest; i ghiacci eterni dell’Antartide a sud, “là dove finisce il mondo”.
Un isolamento che ha contribuito a farne oggi uno degli ambienti più incontaminati del pianeta. E che nel 1878, quando la micidiale fillossera, un parassita, devastò i vigneti di tutto il mondo, riducendo del 99 per cento la produzione di vino in Europa e in Nordamerica, permise al Cile, proprio grazie alla sua particolare posizione geografica, di rimanerne del tutto indenne. Passato il flagello e trovato il rimedio (l’irrorazione delle vigne con soluzioni di solfato di rame) la ricostruzione della viticoltura mondiale fu possibile grazie alla reintroduzione dei ceppi originari provenienti proprio dal Cile, che non erano altro che pinot nero, merlot, cabernet, chardonnay e sauvignon importati dall’Europa nel Cinquecento.
La vitis vinifera dei gesuiti
Si può così dire che se noi beviamo ancora il vino lo dobbiamo in buona parte ai cileni e al loro magnifico paese. E che il vino cileno è l’unico al mondo a derivare da viti provenienti da fusti originali e non da innesti. Ma tutto ciò non basta. Perché oggi si può parlare di un vero e proprio fenomeno vinicolo cileno, sia locale sia in tutto il resto del mondo. Un successo dovuto a qualità, a prezzi competitivi, vigneti buoni e clima favorevole, rispetto della tradizione e volontà di rinnovamento.
Quello che si sta scrivendo oggi è in realtà l’ultimo capitolo di una storia lunga quasi 500 anni, iniziata quando la vitis vinifera, portata in Cile da gesuiti e francescani a metà del Cinquecento, si adattò alla perfezione alle favorevoli condizioni climatiche e ambientali del paese. Così, già nel Seicento, il Cile esportava vino in Europa, tanto che re Filippo ne proibì l’importazione per non danneggiare i prodotti andalusi. Grandi bevitori e pessimi cattolici gli spagnoli: volevano produrre nella colonia il vino per le sante messe, ma lo usarono soprattutto per assoggettare gli indios e per sterminarli.
Arrivano i bordolesi
Due secoli più tardi le colonie spagnole conquistarono l’indipendenza e si ebbe una vera e propria rivoluzione vitivinicola. Le grandi famiglie proprietarie terriere, primo fra tutti nel 1851 Don Silvester Ochagavìa, si dedicarono con passione all’enologia e sostituirono le varietà spagnole con i vitigni classici del Bordeaux e della Borgogna, assunsero enologi francesi e fondarono aziende simili ai migliori Châteaux. Così arrivarono nell’emisfero australe tutti i segreti della barrique e dell’invecchiamento. E molte di queste aziende vinicole, sorte dopo la metà dell’Ottocento, sono tuttora attive, restaurate e aggiornate tecnologicamente, produttrici di vini conosciuti e apprezzati in tutto il mondo.
Santa Rita, Concha y Toro, Errazuriz, Tarapacà, Undurraga sono alcune delle aziende storiche cilene e, quasi tutte, si trovano nella Valle del Maipo, pochi chilometri a sud di Santiago. Le centenarie cantine sono aperte al pubblico: si possono visitare e vi si possono assaggiare e comprare i vini migliori. Sempre Isabel Allende nel suo Afrodita racconta infatti: “Una volta all’anno si andava alle vigne, in particolare a quelle famose di Macul e Concha y Toro, per comprare il vino in damigiane da quindici litri; poi si travasava in bottiglie e si riponevano in cantina…Questo fu il vino quotidiano della mia infanzia, ma per le grandi occasioni si ricorreva alla produzione selezionata dei migliori vigneti cileni”.
Oggi, grazie a capitali freschi, moderne tecnologie e una filosofia produttiva interessata alla qualità più che alla quantità, l’intero settore si è ulteriormente rinnovato. E’ così che in Cile sono arrivati i rampolli delle migliori dinastie enologiche europee e californiane: vengono qui a comprare vigneti e a cercare partner, contando sul potenziale di questi vini corposi e profumati. Ed è nella regione centrale cilena che oggi è concentrata la maggioranza dei vigneti e delle cantine, sia antiche, sia nuovissime. Quasi una terra promessa per gli enologi di tutto il mondo, baciata da un microclima eccezionale: giorni caldi e notti fredde; lunghe e asciutte estati, che garantiscono le condizioni perfette per la maturazione dell’uva e una costante offerta d’acqua pura proveniente dalle Ande che mantiene i vigneti ben irrigati.
La zona dei vigneti corre da Valparaiso a nord, attraversa Santiago e arriva fino a sud, a Concepciòn. Una vasta area lunga più di 500 chilometri che tra febbraio e marzo produce il miglior vino a sud dell’Equatore. Un mondo magico, colorato e profumato che si può ammirare correndo in auto sulla Panamericana, la strada che da nord a sud taglia haciendas e terreni ricoperti di vitis vinifera, coltivati circa un terzo a vino bianco, sauvignon e chardonnay, e due terzi a vino rosso, o tinto come si chiama da queste parti, in maggioranza cabernet sauvignon.
Ruta del Vino, Napa Valley australe
Per entrare nel cuore più puro del mondo enologico cileno, fatto di cultura, raffinatezza ed emozioni, si parte così da Santiago e, in poco più di un’ora, si arriva a San Fernando, una piccola città lungo la Panamericana, un centinaio di chilometri a sud della capitale. Da qui si punta verso ovest, verso l’oceano, percorrendo la Valle di Colchagua, che i cileni hanno battezzato Ruta del Vino. Santa Cruz, Nancagua, Palmilla, Peralillo, sono le capitali di questa Napa Valley australe che in meno di 30 chilometri raccoglie la migliore e più avanzata produzione vinicola del paese. Le sue cantine si chiamano MontGras, Laura Harwing, Bisquertt, Viu Manent, Casa Lapostolle.
Producono merlot, cabernet sauvignon e chardonnay tra i migliori del mondo. Tutte sono aperte al pubblico e si possono visitare. E tutte meritano una sosta, che consente, anche a chi non è un esperto di vini, di entrare emotivamente e fisicamente in un mondo dominato dal profumo del mosto, che aleggia nelle cantine con le gigantesche botti, tra le file infinite di barrique, sulle vasche dove viene raccolta l’uva.
La Festa della vendemmia
Per capire quanto la cultura enologica sia radicata nella gente di questo angolo di Cile, non si deve infine mancare alla Festa della vendemmia che si tiene la prima domenica di marzo a Santa Cruz, quando la piazza viene trasformata in un’unica grande cantina. Qui tutte le aziende vinicole della valle allestiscono uno spazio dove espongono, ma soprattutto fanno assaggiare, i loro vini. Servono solo pochi euro: il costo di un grande calice di vetro. Vuoto ovviamente. Perché, una volta acquistato il contenitore, il contenuto è gratis. Bicchiere alla mano si passa di mescita in mescita, trascinati lentamente tra la gente che degusta, assapora, commenta il vino. Certo, è difficile sbriciolare le sensazioni in parole. Perché quello cileno è un vino che racconta i profumi e i colori della terra che lo crea. Un vino forte e delicato, che regala emozioni autentiche e intense. E che bene si accompagna ai sapori decisi della cucina cilena.
Niente di meglio allora, che accomodarsi su una panchina della piazza, un bicchiere di merlot in una mano e un’empanadas (la frittella locale) ripiena di morbido formaggio e di carne speziata nell’altra. E assaporare così, in un solo sorso, in un solo morso, un mondo intero. Un’esperienza da non perdere perché, come dice Isabel Allende, il cibo, il vino, sono un piacere erotico allo stato puro. “… Mi pento delle diete, dei piatti prelibati rifiutati per vanità, come mi rammarico di tutte le occasione per fare l’amore che ho lasciato correre per occuparmi di lavoro in sospeso o per virtù puritana”…
Foto: SERNATUR – Servicio Nacional de Turismo