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Ha recuperato in tutta l’Unione Sovietica le opere di un’intera generazione di artisti impressionisti, cubisti, futuristi e altri alternativi: oltre 80.000 tele, molti, i capolavori unici. Ha raccolto testimonianze della vita materiale degli ultimi nomadi karakalpaki e dei turkmeni: monili, tappeti, monete, tessuti, decorazioni di yurte. Lui si chiamava Igor Savitsky. Il Museo Statale delle Arti porta il suo nome. E si trova a Nukus, in Uzbekistan, a mille chilometri da Tashkent.

 

Testo di Fabrizio Vielmini

 

In Uzbekistan, viaggiando dalle antiche città della Corasmia verso i resti del Mare d’Aral, si scopre un microcosmo particolare del mosaico umano centrasiatico: la Repubblica del Karakalpakstan. Entità formalmente autonoma, fu creata attorno al delta dell’Amu Darya e all’Aral durante la strutturazione amministrativa sovietica, che ridisegnò la carta politica dell’Asia centrale fra gli Anni Venti e Trenta del secolo scorso. Il risultato? Il Karakalpakstan occupa oggi un territorio enorme, più di un terzo di tutto l’Uzbekistan (166.600 chilometri quadrati) per solo un 5 per cento della sua popolazione. A differenza della maggioranza degli uzbeki, i karakalpaki sono una popolazione che appartiene al mondo dei nomadi, presenti in questa regione dal Dodicesimo secolo. Nell’estate del 2022 i karakalpaki sono balzati agli onori della cronaca internazionale, quando la capitale regionale, Nukus, è stata teatro di violente proteste autonomiste, poi rientrate in seguito a concessioni dal governo centrale di Tashkent (lontana oltre mille chilometri). Oggi, si può quindi esplorarla senza problemi.

Nukus è una città di 250.000 abitanti, creata dai sovietici. Di per sé abbastanza monotona, rimane però tappa obbligata per i suoi interessanti e originali musei. In primo luogo, il Museo Statale delle Arti “I. V. Savitsky”, che raccoglie una delle più belle e ricche collezioni di arte d’avanguardia del mondo. Il museo è frutto del lavoro di una vita di Igor Savitsky (1915-1984), artista che durante la Seconda Guerra mondiale si trovò a lavorare come disegnatore per le spedizioni archeologiche sovietiche nella regione. Quando, a partire dagli Anni Trenta del secolo scorso, lo stalinismo investì anche il mondo delle arti nella sua stretta totalitaria, imponendo il realismo Savitsky, uomo visionario, si ripropose di salvare le opere delle avanguardie russe. Rischiando la prigione, o peggio il gulag, Savitsky recuperò attraverso tutta l’Unione Sovietica le opere di un’intera generazione di artisti impressionisti, cubisti, futuristi e altri alternativi, evacuandole a Nukus, lontano dai centri del potere, con i convogli archeologici. In tutto, Savitsky raccolse una collezione di oltre 80.000 tele, molte delle quali capolavori unici.

Guadagnandosi la fiducia delle autorità locali, nel 1966 riuscì a inaugurare un primo nucleo espositivo in alcune sale del museo di storia naturale di Nukus. In seguito, ne divenne il direttore, lavorando al suo ampliamento fino all’ultimo giorno della sua vita.

Al tempo stesso, durante le spedizioni nei deserti, Savitsky raccolse innumerevoli testimonianze della vita materiale degli ultimi nomadi karakalpaki e dei turkmeni, una colorata e vivace cultura, che andava scomparendo con il pieno avvento della modernizzazione sovietica post-bellica. Con questi materiali, creò una vasta collezione di monili, tappeti, monete, tessuti, decorazioni di yurte e altri reperti della cultura materiale karakalpaka. Andò così a comporre la collezione di arte etnografica oggi esposta nel museo, insieme a superbe raccolte di reperti archeologici e di storia naturale dello spazio dell’Aral, anch’esso in via di sparizione (e per cui esiste, a Nukus, uno specifico Museo della Cultura nazionale).

Infaticabile, sulla base del museo e delle sue collezioni, Savitsky favorì il lavoro degli artisti locali. Viene così anche ricordato come il padre della scuola di belle arti di questa parte dell’Asia centrale, anch’essa esposta nel museo che porta il suo nome.

La visita delle sue sale lascia increduli. Sembra impossibile che una tale mirabile concentrazione d’arte possa trovarsi così fuori dal mondo. Ma c’è di più. Il Museo Savitsky è al tempo stesso testimonianza di resistenza per la libertà creativa contro ogni forma di censura, così come un monumento alla civiltà materiale di un popolo trasfigurato dalla modernità. Negli ultimi anni, più di una voce ha suggerito di trasferire le preziose collezioni in una città uzbeka meno lontana da tutto. Ma Nukus e i suoi abitanti vogliono che il loro Louvre rimanga ai margini del deserto e del tempo. Qui, dove Igor Savitsky lo ha costruito e difeso, unico luogo dove il messaggio del suo coraggio e del suo amore verso le culture alternative e i popoli dimenticati della regione può venire colto in pieno. E sopravvivere nel tempo.

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Fabrizio Vielmini

Fabrizio Vielmini è esperto di Russia, Caucaso e Asia centrale, regioni in cui ha vissuto permanentemente fra il 2002 ed il 2021, lavorando in missioni internazionali per il Ministero degli Esteri....