Una terra vasta e sconfinata, dal silenzio interrotto dal vento e l’orizzonte ricamato dal profilo di severe montagne. Aria gelida e odore di pescato. Un luogo dove desidero sempre ritornare. Un difetto o una virtù?
Quante volte ho sognato, pensato, pronunciato questa frase. E quante volte sono riuscito a trasformare il sogno in realtà, il pensiero in azione, la parola in partenza. È facile quando si parla di Patagonia. Come non fare ritorno a una terra così vasta, sconfinata, intensa e allo stesso tempo accogliente, ospitale e fraterna.
Ci sono stato una decina di volte. Per alcuni, è un mio difetto, il desiderio di tornare spesso in luoghi che amo a scapito di altri posti sconosciuti. Per altri, è una virtù, il continuare ad amare un determinato luogo che ti ha sedotto in una notte limpida, gelida e avvolgente. Questi e altri pensieri mi frullavano in testa nella sala di attesa dell’aeroporto di Madrid dove, accanto al mio volo per Lima, vi erano promesse di sogni e di emozioni in attesa di decollare per Buenos Aires e Santiago del Cile, le due porte d’ingresso alla Patagonia. Tuttavia, dalle due metropoli sudamericane, il silenzio interrotto dal vento e l’orizzonte ricamato dal profilo di severe montagne, due dei tratti distintivi della Patagonia, sono ancora molto distanti.
Il disordine tipico dei posti di frontiera
Solo quando si atterra a Puerto Montt, mille chilometri a sud di Santiago del Cile, si avverte finalmente che qualcosa è cambiato. Nell’aria. Nei volti dei pescatori. Nelle case in legno consumato dalla salsedine. Nel disordine tipico dei posti di frontiera. Tra le bancarelle colorate del porto di Angelmo. Poco lontano si scorge il ferry Evangelistas, un’imbarcazione della compagnia di navigazione Navimag, un semplice traghetto più che una nave da crociera: la prua rivolta verso sud, un lungo fischio annuncia la partenza. L’odore del pescato lascia il posto allo starnazzare dei gabbiani e una folata di aria gelida annuncia l’inizio dell’avventura. Navigherà lento per quattro giorni, dapprima lungo i Golfi di Ancud e Corcovado, per poi uscire in mare aperto attraverso il Canale di Moraleda, fino a raggiungere il Golfo de Las Penas dove, a secondo delle condizioni dell’Oceano Pacifico, la traversata può rivelarsi piuttosto movimentata (tuttavia il nome del golfo non rimanda alle pene della navigazione con il mare in burrasca, bensì alla parola spagnola penazco che significa “scogliera”.
Una volta lasciato l’oceano si entra in un vero e proprio labirinto di stretti canali e lunghissimi fiordi. Un mondo incantato e affascinante, sospeso tra cielo e mare. Improbabile. Dal pelo dell’acqua la fitta vegetazione di cipressi sale lungo ripidi pendii fino a lasciare il posto a impressionanti pareti di granito, in alcuni casi incappucciate da estetici manti nevosi. Realizzo, non senza stupore ed emozione, che stiamo letteralmente navigando in mezzo alle montagne.
I canali dai nomi dei marinai
Quelle che emergono dall’acqua sono le cime di una porzione di Cordigliera delle Ande parzialmente sommersa. I nomi dei canali rievocano le gesta di intrepidi marinai, che si lanciarono nell’esplorazione di uno dei più bizzarri territori del pianeta, il Canale Wide e il Canale Sarmiento, il Passo Farqar, lo Stretto Collingwood. Dalla sala comando dell’Evangelistas, dove è permesso trascorrere gran parte della giornata, gli strumenti di bordo, tra cui il profondimetro, ci svelano che quello che vedono i nostri occhi è, come spesso succede, solo una parte della storia. Sotto di noi la profondità varia, nel giro di pochi minuti, da alcune decine a diverse centinaia di metri. Realizzo che non solo navighiamo in mezzo alle montagne, ma addirittura sopra di esse. Nei due giorni di navigazione che ci separano dalla cittadina australe di Puerto Natales, percorriamo centinaia di chilometri all’interno di un territorio selvaggio e incontaminato, ma soprattutto disabitato, con l’eccezione del remoto insediamento di Puerto Eden. Questo villaggio, dove si sbarca per un paio d’ore, è abitato da qualche decina di pescatori, tra cui gli ultimi discendenti degli indigeni Alacaluf. Si trova sull’Isola Wellington, una delle più grandi del Cile, appartenente al Parco Nazionale Bernardo O’Higgins, curiosamente il più esteso del Paese e il meno visitato a causa delle difficoltà di accesso.
La mattina seguente raggiungiamo il punto chiave della traversata: Angostura White, un canale largo solo ottanta metri, affrontato con estrema perizia dal comandante e dal suo equipaggio. Provo a immaginare lo stupore, la felicità e l’orgoglio del primo esploratore che, dopo settimane e settimane di navigazione, riuscì finalmente a trovare questo passaggio a est. Ripenso ai luoghi che abbiamo toccato: centinaia di isole, migliaia di isolotti, canali, fiordi, baie, un pulviscolo di terra emersa circondata dall’Oceano Pacifico e sovrastata da una delle più grandi catene montuose del pianeta. Non a caso un detto cileno sostiene che “Dio creò il mondo e con quello che rimaneva fece il Cile”. In pochi minuti, superiamo lo stretto canale. L’Evangelistas esce dalle montagne e, subito dopo, il profilo della Cordigliera delle Ande è alle nostre spalle. Raggi di sole filtrano tra le nuvole in un magico gioco di luci e ombre: davanti a noi, lo specchio del Golfo Union; al fondo, il profilo dell’abitato di Puerto Natales; all’orizzonte, l’immensa distesa della pampa patagonica. Domani si parte per le Torri del Paine… Una voce metallica mi riporta alla realtà. Sarà meglio che mi muova, se non voglio perdere il volo per Lima.