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Il gruppetto procede in fila indiana lungo la parete di roccia, di profilo. Apre il cammino un uomo scuro, vestito di magro e polvere, con una bandana in testa. A capo chino, la sua mano conduce la cavezza a dondolo dell’asino che, carico di sacchi, precede due capre e le donne, variopinte con le gonne lunghe al vento. Un vento pungente e svelto, di montagna. Poi viene lo stuolo di bimbi, per mano come una catena d’origami. Sono i rarámuri!

 

Barrancas, Messico. Foto di Paolo Brovelli

 

I rarámuri, o tarahumara, nella dizione storpiata spagnola, si sono rifugiati tra questi monti quando l’invasore ispanico ha cominciato a infiltrarsi, piccone in spalla, nei deserti di Chihuahua, in cerca di ricchezze. Son più di tre secoli, ormai. Per non aver fastidi hanno preferito ritirarsi dalle pianure, in questi labirinti d’orridi e di forre che solo la diceria d’una montagna d’oro – o d’anime da salvare! – poteva dipanare. Così, vennero uomini vestiti di nero. Seminavano Dio aspergendo acquasanta. All’inizio del Seicento i primi gesuiti caddero vittime delle pecore ribelli che anelavano accudire. Poi tornarono insieme alle armi, quelle del Viceré di Spagna, che si portarono dietro il mondo.

 

Barrancas, Messico. Foto di Paolo Brovelli

 

Via gli iberici, ecco i messicani. “Gente strana,” considera Victoriano, uno dei pochi rarámuri che ha avuto la curiosità di rivolgermi la parola. “Noi li chiamiamo chabochis. Tutti: mestizos e bianchi. Anche te” precisa, sorridendo per addolcirmi quella che per lui è un’offesa. “Fanno sempre quel che gli pare. Vendono le nostre terre alle imprese minerarie straniere,” continua amaro, “e poi quelli radono al suolo le nostre pinete, e con il cianuro di sodio avvelenano i nostri fiumi. Ma questa”, afferma d’orgoglio facendo respirare lo sguardo su uno dei panorami più solenni del Messico, “ancora è casa nostra!”. Siamo a 2400 m d’altitudineseduti in bilico sulla Barranca de Urique, una delle tante che formano le Barrancas del Cobre, i ‘canyon del rame’, un sistema di canaloni e precipizi più esteso del Grand Canyon. Sotto di noi uno strapiombo di 1879 metri, e il fiume, l’Urique, che gorgoglia nella gola fonda, diretto, come tutte le altre crepe d’acqua della zona, verso il Pacifico. Intorno, un territorio stropicciato che mischia il verde col marrone in un paesaggio intatto, dove le strade son piste o sentieri. Ancora adesso, solo la ferrovia è in grado di scollinare la Sierra Madre per seguire il fiume tra decine di tunnel e ponti arditi fino al Pacifico. L’unica strada, arriva da Chihuahua e si ferma in cima ai monti. In questi giorni ci viaggiano veicoli carichi di derrate alimentari: il soccorso nazionale per la siccità degli ultimi mesi.

 

Chiesa di San Ignacio, Barrancas, Messico

 

“Tanta scena, ma poco cibo,” spiega Victoriano. “Rischiamo di morir tutti di fame. D’altra parte al governo son messicani, non c’è da fidarsi!” conclude con un sospiro nel vuoto tipo capo indiano dei film western. Dopotutto sono parenti, i rarámuri, di quelle genti oltrefrontiera: apache, navajo… È da là che sono venuti secoli fa, stabilendosi qui, nel Far West messicano, la Gran Chichimeca degli spagnoli. Un nome che evocava barbarie e oscurità. Le zone aride del Nord, solcate da tribù misteriose, dedite alla scorreria e all’imboscata. Ma si sa. I nomadi hanno sempre fatto paura.

Sono gente schivai rarámuri. Si sposano tra loro, parlano una lingua che preservano da orecchie estranee. Seguono le antiche tradizioni fatte di danze primarie e disadorne, scimmiottando asini, pecore, cervi. Fanno offerte a un Dio pagano, innaffiate di ubriacature sacre, le tesgüinadas, riunioni tradizionali a base di tesgüino, bevanda alcolica di mais e canna fermentata, durante le quali la comunità, dispersa tra i monti, ha occasione d’incontrarsi, conoscersi e fare festa.

 

Corsa rituale rarámuri. Barrancas. Foto di Paolo Brovelli

 

Poi c’è la corsa. Un rituale di cui, complici lacune nella tradizione orale, s’è perso il significato originario, ma che tuttora è elemento fondante della comunità rarámuri, nome che non a caso significa ‘quelli dai piedi leggeri’. La sfoggiano nella competizione rituale che chiamano rarajípari. Tanti Abebe Bikila d’America che gareggiano su sentieri di pietra, con al massimo un paio di sandaletti di cuoio ai piedi. Durante la gara devono calciare una sfera di legno delle dimensioni d’una palla da baseball, con l’aiuto di un bastone, e tenerle dietro fino al traguardo. Giorno e notte, per salite e discese ripide, tra gli arbusti spinosi, anche duecento chilometri, coi tifosi che gli portano rifornimenti e illuminano la strada con le torce.

 

Barrancas, Messico. Foto di Paolo Brovelli

 

Anche Victoriano, 55 anni, è un corridore. Qualcuno, un giorno, gli ha proposto di andare in America a fare una maratona. Alcuni amici l’hanno fatto e l’hanno vinta senza sforzo, ma lui non se l’è sentita. Non voleva allontanarsi dalle sue montagne, lui. Vive da sempre qui, in fondo al canyon, vicino a Batopilas, un villaggio polveroso con qualche traccia dell’antico splendore minerario. Molti della sua famiglia abitano ancora negli anfratti granitici dei monti, grotte spoglie di tutto e affumicate dai mille fuochi d’inverno, quando la temperatura può calare ben sotto lo zero. Lui invece ha una casa di legno e qualche bestia. Di recente, dice mesto, un lupo gli ha portato via una capra.

Poi, prima di salutarmi: “Il lupo lo perdono,” dice con un fil di voce. “È il chabochi che non posso perdonare. Lui, ci ha portato via la nostra anima.”

 

Barrancas. Foto di Paolo Brovelli

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Paolo Brovelli

Paolo Brovelli è sempre in viaggio. E dato che non è mai riuscito a stare fermo, ha adattato la sua esistenza all’esplorazione e allo studio. Così, da una trentina d’anni alimenta la passione...